venerdì 10 novembre 2017

Toniella Lamartina Giacalone, "Le briciole della storia"

di Maria Patrizia Allotta

“Le briciole non provocano rumore e vengono disperse facilmente da un fiato di vento e dalla ramazza del tempo. È gran fortuna se talune di esse riescono a conseguire il privilegio di una pur breve sopravvivenza tornando a rotare nel sistema solare nel quale e per il quale ebbero la loro parte e la loro luce”.
   Così si legge nel libro di Toniella Lamartina Giacalone intitolato Le briciole della storia.
   La logica filosofica dell’Autrice - che sembrerebbe allieva tanto di Anassimandro di Mileto quanto di Eraclito - è convincente, infatti, le briciole appartenenti a qualsiasi ente sono taciturne, riservate, mobili, minuscole. Spesso non reggono al ritmo del tempo, a volte si disperdono, in taluni casi svaniscono per sempre, in altri, invece, ritornano - magari in un momento successivo - per far parte nuovamente di quell’Universo grazie, probabilmente, a quel movimento incessante, a quella indicile forza, a quell’infinito vigore che anima eternamente il mondo.
   Il sinolo di materia e forma della briciola, dunque, potrebbe diviene, trasformarsi, cambiare, ma certamente la sua essenza rimane intatta nel tempo se determinata da quella legge assoluta governata dal logós.
    E sicuramente dal logós sono governate le schegge di quei ricordi, le scaglie di quella memoria, le squame di quella reminiscenza che - se pur trascurate, obliate e omesse - riaffiorano improvvisamente nella mente di chi le ha vissute intimamente per essere poi altrettanto intimamente rievocate o magari donate al prossimo semplicemente per il gusto di esserci.   
   E di ápeiron, di pneuma vitale, appunto di logós, sono le briciole di Toniella, ritrovate - non per caso ma per destino - in quello studio “pieno di ricordi e vita” del suo amato Manlio, dove in uno “scrigno”, recupera alcuni essenziali frammenti memoriali capaci non solo di ricostruire le sue vicende personali fatte di gioie e affanni, ma anche di rigenerare la storia comunitaria fatta ora di felicità ora di dolore, ora di odio ora di amore, ora di vita ora di morte, in una visione totalizzante fortemente suggestiva.   
    Non granuli preziosi, né perle rare, neppure pepite insolite, allora, quelle che troviamo nel libro della Lamartina Giacalone, ma umilissimi pezzetti, minuzzoli, semi - presentati al lettore attraverso un linguaggio chiaro, scorrevole, quasi confidenziale e per questo infinitamente vero - che riconducono alla magia delle tessere di un mosaico, le quali prese singolarmente potrebbero risultare insignificanti ma unite insieme, nella meraviglia del tappeto musivo, risultano indispensabili, necessarie, fondanti per le manifestazioni transeunti. 
     Un mosaico di storie, si diceva, raccontate - in un’anomala stazione ricavata, tra la fantasia e la disperazione, nei meandri di un ospedale palermitano - da malati dimessi ma rispettosi, trascurati e ignoranti eppure saggi e virtuosi, stanchi tuttavia ancora vivi, che insieme riescono a intessere un intreccio insolito di soggettività e oggettività, concretezza e fantasia, realtà e mito, secondo quel modello letterario altamente intellettuale tanto caro al Boccaccio secondo il quale “cortesia par che consista negli atti civili, cioè nel viver insieme liberamente e lietamente, e fare onore a tutti secondo la possibilità”.
   E in effetti, le novelle raccontate liberamente secondo le possibilità di ciascun infermo-narratore, non solo fanno “cortesia” perché propongono un ideale di vita fondato sulla nobiltà e sulla dignità dei modi e dello spirito e su una onestà che è signorile decoro, compostezza e misura intima, ma rappresentano, anche, lo spettacolo vario e multiforme della storia umana che in quanto tale si unisce a quella visione mitica e mistica certamente eterna.   
   Nelle pagine scritte da Toniella Lamartina Giacalone, infatti, pur essendo sottese, le analisi culturali, morali e teologiche e pur non apparendo evidenti le trattazioni sociologiche e psicologiche di fatto, in realtà, l’atteggiamento è quello di chi osserva lo scibile con lucida intelligenza e insieme con intima complicità soffermandosi con maggiore interesse sui modi dell’umano agire, sullo spettacolo sempre nuovo e avvincente della vita, sul destino che si ripete, sulle tradizioni e sul mito, insomma, su quelle briciole della storia raccontate sia attraverso un tono commosso, sia attraverso un tono ironico, tanto attraverso un tono nostalgico, quanto un tono maliziosamente divertito.    
    E certamente ciò che resta al centro dell’esperienza vitale della lettura di questo libro è l’amore incondizionato: quello narrato più o meno consapevolmente dai protagonisti delle novelle, l’amore del “popolo vestito di bianco” nei confronti dei malati, l’amore dei parenti e degli amici a favore dei sofferenti, l’amore coniugale e filiale che spinge l’Autrice a pubblicare il testo in memoria dell’insostituibile Manlio e dell’impareggiabile padre Mariano, valido uomo di cultura, l’amore nei confronti dei più bisognosi tanto da offrire la metà dei ricavi della vendita del testo in parte per l’acquisto di attrezzature per il teatro dell’Istituto Penale Minore “Malaspina” di Palermo ed in parte per l’Unione Italiana Lotta alla distrofia Muscolare sez. di Palermo-Onlus e, infine, l’amore che Toniella dona ai suoi lettori i quali magicamente si ritrovano - tra miti e leggende - in compagnia di muse e ninfe in un onirico mondo greco calato in una realtà tutta autoctona e di autentica dimensione umana. 

mercoledì 20 settembre 2017

Maria Patrizia Allotta, "Il giglio e l'ortica" (ed. Thule)

di Elio Giunta

Accade assai spesso che quando ci si trova con in mano un nuovo libro di versi si avverta in primo luogo un certo disagio, anzi addirittura un senso di ripulsa. Questo perché purtroppo si pubblicano troppi libri di versi a perdere e si ha poca fiducia di trovarne qualcuno buono; ma soprattutto perché si è entrati nella convinzione che, dati i tempi barbari che viviamo, far poesia ed occuparsi di poesia sia troppo fuori moda e inutile. Ma accade anche che, mentre si sfogliano le pagine dell’ultimo libro pervenuto, si resti presi e piacevolmente intrigati a proseguire nella lettura, avendo scoperto singolarità di ispirazione e magari quella pacatezza ed armonia di dettato stilistico che ci riporta ai caratteri della poesia vera, quella a cui restiamo da sempre legati e che non vogliamo siano ancora traditi. E’ il caso di questa silloge di Patrizia Allotta. Essa offre pagine che suscitano immediata partecipazione, giacché fanno avvertire il vibrare sincero di “corde di nostalgia in arpa armoniosa”, cioè con esse si stabilisce senz’altro quella distanza memoriale dell’io con le cose, con la natura, il tempo, il senso dell’esistenza, e con cui il disincanto si fa elezione morale e ragione di esito melodico della parola.

Nell’opera i testi sono distribuiti in due sezioni: l’una ove ogni percezione del reale, intima o riflessiva, pare poggiare più sugli effetti della disillusione, col farsi osmosi tra spirito e realtà appunto rimeditata; l’altra, ove questa realtà è per lo più recupero di incontri umani, anche con le proprie frequenze familiari –indizio questo di una poesia che può restare tale e di buon livello senza pretese di complessità intellettualistiche- ; ma l’una e l’altra risultano realizzate con rara misura di accenti e di uso dell’immagine, con omogenea delicatezza tonale. Ed è soprattutto per questo che il libro può contare come lezione di un verbo lirico che ancora ci persuade e, diciamolo pure, ci conforta.

martedì 5 settembre 2017

Carlo Puleo, "Ignazio Buttitta il presente della memoria 100 foto e 18 racconti", (Ed. ISSPE, 2016)

di Maria Patrizia Allotta

 Tu non leggi semplicemente un libro. Tu hai come la sensazione di ascoltare una voce narrante che con pathos racconta le memorie della sua stessa anima, inoltre, contemporaneamente, percepisci riproduzioni figurative che solo l’occhio attento del vero artista può cogliere per poi donarle, nel tempo, a chi sa celebrare l’irripetibilità e l’importanza dell’attimo fuggente.  

Tu non sfogli soltanto un testo. Tu ti perdi in quel magico intreccio fatto di parole e immagini, dove la parola diventa versus, ovvero, viaggio iniziatico, cammino mistico, fede che intuisce la Tradizione rivelata generando l’eterno ritorno, come dire, quasi credo spirituale che sostanzia il divenire dell’esistenza, mentre l’immagine diviene forma del passato, sembianza di ciò che non può essere dimenticato, aspetto vitale, rappresentazione raffinata perché unione d’armonia e redenzione.
Tu non tocchi esclusivamente un’opera artistica. Vai oltre, perché naturalmente riesci ad avvertire l’immediatezza del linguaggio, la lucidità dello stile, l’espressività del semplice idioma, la linearità della tecnica, l’assenza dell’inutile allitterazione, il mancato vezzo retorico, la chiarezza dell’immagine, la preziosità dello scatto improvviso, tutti elementi questi che meglio fanno lambire le emozioni esplicitate, la palese sincerità, la schietta realtà storica raccontata senza inutili infingimenti e, soprattutto, senza quel falso inseguimento delle mode letterarie che spesso involgarisce i testi, banalizza i valori, esaspera il lettore.
Ma non è tutto. Tu non sei in presenza del ricordo dettato dalla sterile cronaca o dall’avulsa registrazione di eventi, oppure dalla estranea individuazione dei fatti, tutt’altro - così come perfettamente suggerisce Stendhal nel suo capolavoro intitolato Henry Brulard dove si celebra l’importanza del “bel ricordo”, o come magistralmente rammenta Marcel Proust in Alla ricerca del tempo perduto dove si officia “il vero valore della rievocazione malinconica del passato perduto”,  oppure come attesta nei suoi Racconti lo stesso Giuseppe Tomasi di Lampedusa che della memoria ne fa letteratura - tu sei davanti alla sublimazione delle rimembranze che in quanto tali esaltano quelle virtù tanto più comuni quanto più nobili, sei davanti a quelle memorie che riconducono alle origini e alle tradizioni autoctone, sei  davanti a quelle rievocazioni soggettive che si dilatano fino ad abbracciare l’oggettività universale divenendo, forse inconsapevolmente, pneuma vitale per il nostro esserci.
E ancora. Tu non leggi per subito dopo dimenticare, così come molto spesso ultimamente capita. Tu leggi e inevitabilmente annoti, nel cuore e nella mente, l’alto magistero che abbraccia, in buona sostanza, tre insegnamenti fondamentali: l’importanza della ricostruzione storica, la preziosità del rapporto dialogico tra maestro e allievo, la rarità esplicativa dell’arte.
Tre lezioni che - nello spazio di 125 pagine - s’intrecciano fino a formare un tessuto musivo di carattere pedagogico di alta qualità.
La prima lezione, si diceva, è data dall’esaltazione dell’importanza di quella ricostruzione storica capace però di magnificare il mito dell’identità unitamente alla celebrazione delle proprie radici, del proprio ceppo, della propria terra che in questo caso è Bagheria, patria d’illustri artisti tra i quali - tanto per fare soltanto qualche esempio - si ricordano Renato Guttuso, Dacia Maraini, nipote del Duca di Salaparuta, Castrenze Civello, Giuseppe Tornatore e Ferdinando Scianna.
La seconda lezione - che inevitabilmente ci riconduce ai grandi insegnamenti socratici - è data dal dialogo continuo tra un anziano maestro e un giovane allievo.
Il giovane impara, l’anziano educa. L’allievo ascolta silenziosamente, convinto che il vero senso dell’insegnamento è dato dall’occasione di cogliere le virtù di chi conosce di più per intraprendere poi un cammino autonomo che si concretizza nella pratica della libertà; il Maestro, in modo austero, a volte severo, più raramente divertente - facendo leva anche sulla lezione di Rousseau - erudisce indirettamente, ammaestra informalmente, avvia, quasi inconsciamente, verso i difficili sentieri della vita.
Ma, nel leggere le pagine, ciò che più piace è il rispetto reverenziale del discepolo nei confronti del maestro, la sua ossequiosa disponibilità, la devota ammirazione, la fidata stima, la capacità d’ascolto e, soprattutto, la sincera amicizia che lega due generazioni sostanzialmente diverse eppure unita da un unico abbraccio.
Uno spaccato di vita d’altri tempi.
E sembrerebbe, inoltre, che mentre l’anziano educa il giovane al senso dell’umano dando prova della sua stessa poliedrica umanità, il giovane diviene più umano cogliendo l’umanità - a volte sorprendente - dell’anziano.
Infatti, attraverso diciotto racconti e 100 fotografie, l’Autore - che, per dovere di chiarezza è lo stesso giovane-allievo-artista - si diverte a mettere in luce il carattere ora illimitatamente spigoloso, ora infinitamente amorevole del vero protagonista del libro ovvero l’anziano Maestro-Poeta, anche Lui nato a Bagheria nel lontano 1899, uno dei più significativi lirici dialettali del ’900.
Ecco allora che l’anziano Maestro-Poeta viene colto e raccontato dal giovane Allievo-Artista-Autore ora nella sua quotidianità (A putia), ora nella sua straordinarietà (Nelle piazze della Sicilia); ora in qualità di maschilista-erotico (Visita alla casa di Ignazio), ora come esaltatore della bellezza femminile e della grazia del gentil sesso (La poetessa); ora come amante del sapere e della cultura (Una serata con Quasimodo), ora come ammiratore del Cosmo tutto e degli animali in particolare (Il poeta e gli animali); ora come soggetto insolito e burbero (Una recita a Palazzo Butera - Il divorzio dalle sigarette), ora come individuo sensibilissimo, perdutamente innamorato della vita e per questo contrario a ogni tipo di violenza e avverso ad ogni forma di guerra (Quelli del 1899).
La terza lezione, infine, è data dall’amore per l’Arte. I due protagonisti, uno affermato poeta dialettale e l’altro scrittore, scultore e pittore allora ancora in erba, per dirla alla Tommaso Romano, celebrano, entrambi, l’“Arte come l’unica possibile verità capace di promuove e svelare”.
Infatti, l’arte dello scrivere in versi svela l’essenza del Maestro, così la capacità di raccontare e fissare l’immagine attraverso le arti figurative rivela la vera natura dell’allievo il quale, in qualità di Autore, utilizza anche la fotografia che appare all’interno del testo, sia singolare mezzo capace di destare alla mente inesprimibili memorie sia come pregiato strumento capace di rappresentare l’anima di chi fotografa e di chi si lascia fotografare.
Scrive Christian Bobin: “… un libro così denso che, una volta chiuso, esso diventa lettore di se stesso. La sua presenza che ci irradia intorno a noi diffonde una profonda pace. Cosa contiene questo libro? Nient’altro che il perfetto racconto di una vita umana che si dispiega e che ci colpisce”.Ma nel leggere, nel toccare e nello sfogliare il testo intitolato Ignazio Buttitta il presente della memoria 100 foto e 18 racconti - edito dall’Istituto Siciliano Studi Politici ed Economici - tu assisti contemporaneamente al racconto di due vite umane: quella di Carlo Puleo e quella di Ignazio Buttitta.
Il primo è il giovane-allievo-artista nonché Autore del testo sopra menzionato, il secondo è semplicemente il grande Maestro.

  

martedì 29 agosto 2017

Il Giglio e l’ortica di Maria Patrizia Allotta: un dire essenziale nell’attesa dell’alba

di Giuseppe La Russa


Risulta ovvio come in ogni autore, poeta o romanziere, ricorrano stilemi, contenuti e parole che nel corso di una lunga produzione diventano il marchio di fabbrica dello stesso. Alla sua seconda opera in versi, si può già tracciare un piccolo bilancio per Maria Patrizia Allotta, poetessa che ha esordito nel 2013 con la silloge Anima all’alba e che nel 2017 pubblica, sempre con la casa editrice Thule, Il giglio e l’ortica.
Ma come in ogni percorso poetico – che certamente è anche di vita – la penna di Maria Patrizia Allotta appare più matura, più densa, nitida e chiara.
Ma procediamo con ordine, andando a scovare gli elementi di continuità con la raccolta precedente, Anima all’alba: innanzitutto una delle parti della silloge attuale si intitola Zolle dell’anima, come a richiamare immediatamente l’essenza stessa di un percorso. Inoltre è spesso presente in Il giglio e l’ortica l’immagine dell’alba, spesso citata come nella poesia Fiato all’alba, o semplicemente rievocata attraverso semplici ed essenziali pennellate; e pensiamo anche alla raccolta di testi dell’amico Tommaso Romano e da Maria Patrizia Allotta curata e intitolata Nel buio aspettando l’alba, speranza che non muore. Ma tralasciamo per un attimo queste osservazioni per riprenderle in seguito.
Si è detto di essenzialità: da una scorsa breve dei testi della raccolta, ciò che balza agli occhi è proprio la concisione del dire poetico. Sia chiaro che una tale cifra stilistica non si traduce affatto in povertà, ma è proprio il segno di una maturazione e di una crescita che passano attraverso le mutate esperienze di vita e che si proiettano, poi, nel dettato poietico e creativo. Nel corso di quattro anni, immaginiamo, nuove esperienze e nuovi orizzonti si sono affacciati nella sua vita e così, in Maria Patrizia Allotta, il bisogno è divenuta, probabilmente, questa essenzialità. Non è un caso che tra le dediche si trova quella a Fabio e al «suo dire essenziale» e che nel primo testo, il Giglio e l’ortica che dà il titolo alla raccolta, si legga: «E si cercano gigli essenziali».
Tra le marche stilistiche che la poetessa mantiene vive rispetto alla prima sua fatica letteraria vi è un verso breve, teso alla massima carica espressiva, l’abolizione quasi totale della punteggiatura e la disposizione a scalini riconducibile ad un autore come Mario Luzi, la cui lettura è probabilmente tra le più decisive. Ma ciò che appare evidente in questa nuova esperienza poetica è il discorso asciutto, conciso, ma proprio per questo forte, pregnante, denso. La parola è simbolo, è epifania del sacro, momento rivelativo, dipinto; magistrale appare così l’incipit della raccolta con l’avverbio di tempo ‘ancora’: esso dona l’idea di una continuità nel tempo e nello spazio, è un continuum esistenziale e letterario, è un percorso che ha raccolto e che raccoglie nuova vita.
Il titolo offre, inoltre, un forte spaccato dei contenuti presenti nella raccolta: da un lato il giglio, simbolo di lucentezza, delicatezza e bellezza, e dall’altra l’ortica, metafora di asprezza e difficoltà. Una antitesi, nel titolo, che viene calata nei vari testi della raccolta; osserva, a proposito, Tommaso Romano nella postfazione come in questa metafora vi sia «tutto l’universo di una poesia alta e solenne, intima e dolente, forte e umile al contempo». Non si tratta di semplice contraddizione, ma di uno sguardo profondo e serio sull’esistenza, sulla quotidianità fatta di momenti alti e bassi, di bellezza e della presenza del turpe, di immanente e trascendente. Ma nella maturazione di uno spirito, la potenza dello stesso sta nell’accettare «ogni sfida senza viltà», come si legge in Fiato all’alba attraverso una probabile citazione di Montale.
Se è vero che il tempo è logorio, se gli anni scavano solchi e producono nostalgie, la poesia di Maria Patrizia Allotta è sempre viva e alla ricerca di un approdo, di un risveglio, di una resurrezione. Ecco perché, si diceva, la parola è essenziale e diviene via di accesso all’infinito, all’immutabile, percorso preferenziale per il Senso; ecco perché l’alba, per riallacciarci al discorso precedentemente lasciato in sospeso: essa rappresenta l’inizio che quotidianamente si ripete, nella consapevolezza che, come scrive Gonzalo Alvarez Garcia nella prefazione, «tutto si rinnova, tutto cambia, tutto rimane».

Poi di fiato d’alba
apre luce al sole
                                                       finalmente.
Canto dal petto irrompe
resuscita fervore intenso
nuovo entusiasmo
si avverte.

Nei versi proposti, e in cui si nota l’attenta disposizione, l’anima infinita può osservare l’affacciarsi continuo della speranza, la quotidiana gioia di un perpetuo inizio, il perenne rinascere della natura, può diventare natura essa stessa, come nell’emblematico testo Risorgere«Mi piace esistere/oltre la palude/come ginestra in fiore.// E tra l’effluvio/di antiche radici/risorgere/nella mia stessa valle/tra i soliti soffi vitali/che conducono/a raggi ilari/spazi aprendo/verso nuovi orizzonti/».

Il percorso di cui si diceva prima, prima esistenziale e poi letterario, è giunto a maturazione, ma non possono negarsi nuovi orizzonti, lo sguardo è sempre rivolto al domani, sempre rivolto in avanti. La disposizione stessa dei versi è un continuo rincorrersi tra gli stessi, pronti a generare e ad autogenerarsi, scontrarsi ed incontrarsi; l’anima della poetessa si schiude, all’alba, come fiori novelli, come giglio delicato che osserva le ortiche, che vive la pesantezza e l’asprezza, ma che in un continuo parto sa accogliere un soffio vitale mai assopito, capace di obbedire perennemente alla vita, in grado di «contemplare/la luce fioca/di ogni tramonto/con lo stesso coraggio/aspettando poi/i bagliori/di qualsiasi alba/che desteranno//nella commozione/ancora/la meraviglia dello stupore/per il Cosmo tutto//».

sabato 29 aprile 2017

Giuseppe Pappalardo, "Contraventu" (Ed. Arianna)

di Maria Patrizia Allotta

  
Tra la palude e lo stagno, tra il deserto e il vuoto, tra le macerie e le rovine, ecco stagliarsi l’autorevole opera di Giuseppe Pappalardo.
    Uno scrigno pregiato il suo Contraventu. Canzuni, sunetti e strammotti siciliani che, fortunatamente, si distingue dagli infingimenti artistici artefatti e si allontana da quelle manipolate mode letterarie che sempre più calpestano la dignità del patrimonio umanistico. 
    Così, con estrema semplicità e con altrettanta sensibilità - mentre la tradizione erudita sembra ormai annullarsi e l’inutile specialismo avanza inesorabilmente - il nostro Autore, senza l’albagia dell’ambizione, piuttosto, nel rigore della glottologia e nell’impiego attento delle fonti, quasi titanicamente lotta - come pochi sanno fare oggi - per la salvaguardia della tradizione autoctona e per la tutela della cultura, quella vera, però.   
    E da intellettuale che vive autenticamente il sapere e produce incondizionatamente la conoscenza riesce, attraverso il suo versus, a donare quelle percezioni e quei sentimenti, quelle emozioni e quei tormenti, quelle gioie e quei dolori che, pur nascendo da soggettive condizioni vitali, abbracciano l’oggettivo esistenziale attraverso un dialogo musicale delicatissimo che avviene con se stesso, con gli altri e con il Cosmo tutto.
   Un’architettura importante, dunque, dove recuperiamo saga ed epopea, simboli e immagini, spirito e natura, ma soprattutto dove l’io si unisce con l’altro, l’intimismo s’intreccia con il sociale, il contingente si abbraccia all’Universale, proprio attraverso quella parola dialettale che meglio di qualunque altra parola sa rappresentare i pungoli ispirativi, la tensione creativa, le vocazioni personali, l’intimità dell’anima.
   E quella di Giuseppe Pappalardo è parola dialettale cristallina, nitida, chiara, vera - certamente non studiata a tavolino, non ingozzata da scienza dialettologica fine a se stessa, né tormentata da assilli grammatologici invadenti - paragonabile ad un gioiello da incastonare tra le opere che duellano contraventu per contrastare il tramonto del mondo siciliano.   
   In effetti, più che un “pirriaturi ca tàgghia e ntàgghia li massi cchiù duri”, o un “tissituri ca ntrizza e tessi ccu lana e fila d’oru”, oppure un “cavaleri ca cummatti ntra vìzzii e farsità suttâ bannera di la libertà”, Giuseppe Pappalardo è un “pueta” convinto che “chistu è lu tempu di cantari n coru ca un si campa d’òdiu ma d’amuri. É tempu bonu ppi turnari arreri. È tempu ca Ddiu duna ppi capiri,(…). È tempu di canzuni e di puisia”.
   Infatti, considerato il tempo infame, la corruzione degli uomini, la violenza fine a se stessa,   l’indifferenza davanti alla solitudine, al dolore e alla morte, Giuseppe Pappalardo - ora con tono sommesso e curvato davanti all’angoscia, ora con tono vigoroso e ritto dinnanzi all’affanno  -  sembra invocare un mondo migliore, possibilmente senza “na varca di culuri” destinata inesorabilmente “nfunnu ô mari” dove “c’è sulu scuru e friddu”, dove “Nun c’è un tabbutu a spadda di l’amici”, dove  nun c’è un parrinu ca binidici”; senza “misteri scilirati”, “nutrichi tutti ossa e panza”, “mischini scàvusi e sfardati”, “figghi c’annu fami”; insomma, senza “cori tinti”.
   Un mondo diverso, privo, finalmente di “genti (..) ca campa ittata ô ventu, a la vintura, ca dormi nta na casa senza mura”, “genti ca rriipitìa pp ‘un pizzuddu di pani, genti senza dumani”; ma soprattutto privo di “òmini pupi, c’abbàllanu a cumannu, ccu m-pedi, senza sonu, supra un filu di corda, mpisi a-ll’artaru di li so’ disìi e di lu ddiu dinaru”, privo di “òmini lupi, ca di la fami ‘i l’àvutri si ìnchinu la panza nzinu a quannu nun ncòntranu la santa fàuci e l’ùrtima vilanza”.     
   E con parole sorrette certamente da una profonda fede cristiana, in chiave di Strammotti, Pappalardo immagina - facendo magistralmente immaginare - un esserci insieme, magari senza La superbiaLa tinturìaLa mmìdiaLa rràggiaLa lussuriaLa gulaLa lagnusìaLa farsitùtini, in un cosmo auspicabile dove sia possibile - così come già ama fare il nostro nelle sue Canzuni e nei suoi Sunetti - colloquiare con gli amori prediletti (Quannu è notti, Iu sugnuA me frati, Pinzannu a me matri) o con quella natura che tra “lu vucilìzziu ncuttu di l’ariddi, un abbàiu di cani, lu rispiru dô ventu, lu silènziu dô tempu” ancora “duna corda a lu rralòggiu di li (…) pinzeri, aspittannu”, in quella dimensione totalizzante dettata dalle rimembranze radicate (Torna NataliLu me paisedduE io Luntanu) che molto confortano. 
   Certamente, in quel flusso di coscienza estremamente significativo che rileva a tratti ora fiducia, speranza e miraggio, ora dubbio, angoscia e patimento; il quell’attesa di nuovi pensieri che s’intessono preziosamente con il sogno e la realtà, con la letizia e lo spasimo, con la vita e la morte, troviamo, spesso, un uomo narrante “stancu di sta vita mùscia, di parrari di ventu ca non ciùscia, di càlia e di simenza, di dinari can un àiu e nun pozzu vadagnari (…), stancu d’annati nùtili e siccagni, di nèsciri dô focu li castagni, di sbàttiri la testa contrè mura, di sòffriri pilànnumi a vintura”.
   Un uomo narrante, si diceva, che non canta “cchiù dd’amuri spinziratu, spògghiu di sdegnu e rriccu di ducizza, di quannu stu cori turmintatu nun lacrimava sangu a stizza a stizza”, adesso, intona versi per quell’ “amuri lisu, dispiratu, palumma bianca c’abbulò luntanu, cavaddu pazzu ca fuìu scantatu, acqua ‘i surgiva spersa ntra li manu”; un uomo “ittatu e quattru venti”, senza “rimèggiu e mancu paci”, a cui “li làscrimi (…) scìnninu nzuppilu”, che invoca “la morti” e “idda rrispunni: nun ti dugnu asilu”.
    “Dinanzi a mia si grapi nu sbalancusu’ rrussi l’occhi mei, rrussi di chiantu, ma si chiancennu n terra m’allavancu, na carità: scurdàtivi stu cantu”, riferisce e chiede il Poeta.
  Chi adesso scrive è certa, però, che per il Poeta - al di là dello sconforto che pure si manifesta nel quotidiano essere e oltre l’afflizione legittima che parimenti prende nell’umanissimo andare - non è ancora tempo né di sbalancu, né di allavancu, neppure di scurdari un cantu.
  E’ tempo, piuttosto, di celebrare quella poesia contraventu, invocata da un anima insolita che intravede nell’atto dello scrivere e nel valore fondante della parola, la possibile salvezza, l’epifania dell’essenza, la parusia dell’essere. Nonostante.    

venerdì 31 marzo 2017

Maria Concetta Ucciardi, "Il crepuscolo dell’alba"; Giusy Lombardo "Maredentro"; Maria Patrizia Allotta " Il giglio e l’ortica" (Ed. Thule)

di Sandra V. Guddo

Tre donne, tre amiche, tre poetesse si sono messe alla ricerca, in modo diverso ma complementare, di quell’armonia che regola l’universo e sembrano avere timidamente trovato risposta con i loro versi in quell’Amor di cui cantò, molto tempo prima di loro, Dante Alighieri ( 1265 – 1321 )  che descrisse l’Amore come quella forza  che è  capace di  muovere “ il sole e l’ altre stelle “ .
Inevitabile non ricordarci della testimonianza molto più recente e assai vibrante di Albert Einstein ( 1879 - 1955 ) che, giunto in prossimità del suo percorso terreno, intuì da quel grande genio quale Egli era, che non tutto può essere riconducibile a complesse procedure aritmetiche o condensato in difficili  formule equazionali trovandosi in tal modo incredibilmente vicino a quanto aveva già scritto, secoli prima, il Sommo Poeta che ignorava i complicati logaritmi della matematica più avanzata!
Albert Einstein, nella lettera inviata alla figlia Leslie, dichiara che inutilmente gli uomini hanno cercato di spiegare l’universo con la sola forza dell’intelletto perché c’è un quid che sfugge a qualsiasi ragionamento e non si lascia imbrigliare in regole astratte ed in formule aritmetiche: quella forza misteriosa e potente è l’Amore. Fa paura l’Amore perché è l’unica forza che l’uomo non riesce a spigare completamente né  è  in grado di  controllare secondo i suoi desideri.
L’Amore è luce, l’Amore è gravità, l’Amore è potenza che consentirà all’uomo di trovare la via della salvezza dalle tenebre e dalla fine di ogni cosa.
Sono queste le riflessioni che sono immediatamente scattate dentro di me quando ho finito di leggere le tre sillogi poetiche, probabilmente perché la mia sensibilità è molto vicina alla loro per cultura o più semplicemente  per appartenenza di genere , essendo anch’io una donna.  Sto parlando di tre signore : Maria Concetta  Ucciardi, Giusi Lombardo e Maria Patrizia Allotta.
Tre Muse che con la  cetra ci hanno incantato, con le loro liriche che sono insieme musica e parole soltanto che la musica che accompagna i loro componimenti nasce dall’armonia che si sprigiona dal loro verseggiare.
Un poetare che colpisce perché appare insieme intenso e ritmico, lento e acuto, fluido e penetrante: in ultima analisi è proprio ciò  che caratterizza il loro modo di essere donne e poetesse che si distinguono proprio per il loro apparire, nello stesso tempo, lineari e controverse, trasparenti ed intellegibili, arieggiate e misteriose come lo sono le loro opere, edite tutte e tre dalla Fondazione Thule i cui titoli svelano e rivelano !

“ Il Crepuscolo dell’Alba “ di Cetti Ucciardi, un ossimoro solo apparentemente incomprensibile ma che indica, a mio avviso per come ho percepito ed assaporato il suo poetare delicato ed armonioso, la circolarità della nostra esistenza che oscilla tra buio e luce, tra crepuscolo ed alba. Ella infatti si pone pacatamente la domanda che da sempre assilla il genere umano sul senso della vita e della morte ma non esige, non pretende risposte: semplicemente accetta quello che altrove una Volontà Superiore ha stabilito; ciò le basta per ritrovare serenità non senza però qualche turbamento. Cetti Ucciardi trova nel poetare una ragione di vita che la spinge generosamente a mettere a nudo la sua anima e a svelare ai suoi lettori parti segrete di sé con l’intento  dichiarato di creare un ponte di comunicazione che possa essere di sollievo a chi soffre per la perdita di un caro amico o di un familiare molto amato. Ella vuole trasmettere un messaggio di luce e di speranza perché tutti i crepuscoli  sono sempre seguiti dall’alba che con la sua luce dissiperà il buio riaccendendo la fiaccola della speranza e della gioia che seppure a tratti la vita generosamente offre a chi sa accoglierla con animo puro.
“ Mare Dentro “ di Giusi Lombardo  racchiude nel titolo il mistero e la profondità del nostro navigare ma indica anche tutta la pienezza di chi, ricco della sua esperienza sedimentata negli anni, avverte il mare dentro con le sue onde che lentamente avanzano verso la spiaggia e ne mutano la sua configurazione: ogni granello di sabbia dopo essere stato sfiorato dalle acque del mare non sarà più lo stesso. Ella, dotata di una sensibilità particolare, avverte anche i più piccoli moti delle correnti marine che l’attraversano, la inquietano ed infine la cullano nel ritmo armonioso del suo eterno oscillare tra flussi e riflussi, tra le maree che si innalzano per poi ridimensionarsi e tornare al loro aspetto consueto dopo avere provato il brivido di essere diverso dall’abituale configurazione. Una versione al femminile dell’intrepido protagonista dell’Odissea che peregrina da un lido ad un altro sempre alla ricerca di quel quid indefinito che ciascuno di noi si porta dentro. Ebbene Giusi Lombardo con i suoi versi, ha avuto la capacità di estrinsecare il suo mondo interiore, di scandagliare gli abissi della coscienza umana  e di farcene dono con una semplicità ed una immediatezza comunicativa che non lascia indifferente anche il più superficiale dei  lettori.

il Giglio e l’ortica“ di Maria Patrizia Allotta  svela tutte le contraddizioni della condizione umana sempre combattuta tra scelte antitetiche ma dove la spinta ascensionale verso il divino diventa vincente sulle difficoltà del quotidiano andare tra amarezze, difficoltà e delusioni. Alla fine il giglio, simbolo di purezza e di salvezza, si erge vittorioso sul suo alto seppur fragile stelo, sulle asprezze della vita.
Senza scomodare il filosofo Blaise  Pascal, l’uomo con le sue debolezze sembra piegarsi  come una canna al vento ma non cede, non si spezza e resiste alla furia della tempesta senza che le sue radici profonde vengano sradicate anzi proprio da esse che affondano solide e sicure in un humus ricco e fertile, trae la forza per andare avanti seguendo il divino che è presente in tutto ciò che lo circonda. L’ortica sembra porsi decisamente in contrapposizione al giglio per il suo aspetto esteriore  poco piacevole alla vista e soprattutto in quanto essa risulta sgradevole  per  la sua caratteristica proprietà di essere pruriginosa al contatto ma nasconde in sé qualità medicamentose e salutari che vanno però ricercate al di là del primo impatto. Così è la poetessa Maria Patrizia Allotta che ci invita  ad andare oltre le apparenze per ricercare le essenze delle cose che spesso dietro un aspetto sgradevole nascondono proprietà salvifiche.
D’altra parte il giglio con il suo colore bianco splendente, che suggerisce immediatamente visioni di gioia è invece come sostiene Federico Garcia Lorca, il colore della pena.
Nelle sue poesie c’è dunque un forte richiamo a ricercare sempre la Verità che non appare ad occhi che non sanno guardare ma deve essere trovata con il linguaggio profondo e celato dell’anima.
Tre donne, tre amiche, tre poetesse  che con i loro versi superano le contraddizioni per andare alla ricerca, come nella migliore speculazione filosofica che procede per tesi ed antitesi, della più alta sintesi; versi che si confondono magicamente in un abbraccio panico con la Bellezza della natura a cui riconoscono il sigillo divino.

Maria Patrizia Allotta, "Il giglio e l'ortica" (ed. Thule)

da: "Il Settimanale di Bagheria", anno XVI n° 728, 5 Marzo 2017

Maria Patrizia Allotta, "Il giglio e l'ortica" (Ed. Thule)

di Franco Trifuoggi

Con questa pregevole raccolta (Il giglio e l’ortica, Thule Ed., Palermo 2016Maria Patrizia Allotta ritorna all'appuntamento con la poesia. Docente nel prestigioso liceo “Regina Margherita” di Palermo, collaboratrice del periodico “Spiritualità e Letteratura”, curatrice dei volumi Luce del pensiero, l’autrice, saggista e componente delle Giurie di molti premi letterari, ha curato, tra l’altro, il volume Essere nel mosaicismo, dialoghi con Tommaso Romano ed è Accademica di prestigiose Istituzioni.
Nelle trenta liriche di questa silloge, distribuite in due sezioni, Zolla dell’anima Incontri sul campo, risuonano le note di una poesia “alta e solenne, intima e dolente, forte e umile nel contempo” - come scrive Tommaso Romano nella lucida postfazione -, racchiusa nella “metafora del campo di ortiche, spesso aspre e pungenti, e del giglio del vero bene e, quindi, dell’armonia da non obliare al vento delle  contingenze”. Anche qui, come nella precedente silloge Anima all’alba, l’autrice rivela “un’acuta virtù introspettiva, attenta ad analizzare i moti più reconditi del fitto tramaglio del suo animo oltremodo sensibile”, e al dettato poetico “affida il compito di esprimere l’ansia e di tradurre la materialità del contingente in purezza di spiritualità”.
Già nella lirica eponima traluce, vivida, la presenza delle ortiche in “campi vuoti”, come la ricerca di “gigli essenziali”, fautori di lievi riposi: vi aleggia la mestizia del sentore di “albe che non sorridono più”, del vanire delle “possibili speranze” sotto l’incalzare dei turbini. E in Nient’altro una “strana / orchestra di emozioni” fa da “sottofondo delicato” all’invocazione del silenzio. E sormonta (Dipanare allora) la deplorazione della rovinosa assenza dell’ “orizzonte metafisico” nel trionfo della decadenza che connota la palude della modernità. Ma ecco che (Fiato all’alba) in un contesto scintillante di pensieri, dubbi, tensioni , alfine “fiato d’alba / apre luce al sole”, suscitando il fervore di un “nuovo entusiasmo” che alimenta il coraggio di “ogni sfida”, mentre (Aspra in marina) la solitudine in Aspra marina affranca dai veleni e dalle spine del male, e al “nero / di certe lingue”subentra lo splendore di tremule stelle, così come riaffiora il “pensiero assoluto / verso invisibile luce”. Un sentore di malinconia e di sconforto si diffonde, tuttavia, su un trittico di lacerti poetici (Sole d’agosto; L’ultimo mare; Dieci agosto): è triste il sole di agosto che più “non sfavilla / fino a tardo meriggio”; non sorridono più come prima “le acque settembrine”, sono “reminiscenze i sogni”, mentre l’ombra avvolge il mare e il silenzio angoscioso “prende l’anima”; “sempre più distanti”, le stelle cadenti “neanche per San Lorenzo” donano speranza, ai papaveri rossi subentrano “crisantemi in nero prato”. Sentimenti diversi esprime il trittico consacrato a festività religiose (Insolito Natale; Epifania; Ognisanto): un dicembre gelido, spoglio di doni e di decori, ove prevale lo sgomento nell’attesa della guarigione; l’avvento di “nuova stella Cometa” con purificante dono di incenso, e “balsamico profumo…tra i corpi insanguinati” nel segno dell’attesa di una “redenzione umana / forse ancora possibile”; nel tiepido Novembre la preghiera tacita consolida “i ricordi / dei cari andati” nell’estasi di un incontro che dissipa “le beffe demoniache” e disperde il dolore. E con Maia la prima sezione si chiude nel lucore di una nuova alba e nel tepore del sole con il rifiorire della speranza e il trionfo del vivere e della poesia: nonostante tutto, “gli intelletti sperano ancora, /poetando”.
La seconda sezione vede l’intenso respiro di alta spiritualità dell’autrice animare non soltanto la riflessione sulla propria interiorità, ma anche la dipintura della sensibilità delle persone amate come in un tacito, sottinteso dialogo, e anche la partecipazione all’angoscia di un “drammaturgo eterno” e al dramma di una donna uccisa: un panorama cangiante, illuminato tuttavia dalla meditazione esistenziale dolente e insieme anelante con vigore al superamento del buio dell’incomprensibile destino, all’infinito e all’eterno, all’incontro vivificatore e pacificatore con la Verità. Come in Respiro (A Fabio mio) il corpo resiste ai “patimenti” nell’intravedere “il nettare dell’impalpabile senso / che desta Verità”, e l’angoscia viene dissipata dal chiarore di una melodia; così in Primavera attesa (A me stessa) si celebra l’attesa fiduciosa di un tepore foriero dell’avvento di nuove primavere. E in Nobiltà (A mio padre) rivive il vigore dell’attesa nella connotazione di una nobiltà persistente “secondo il verbo / dei padri” e ravvisata nella condotta di colui il quale, nonostante la propria “odissea esistenziale”, riesce, comunque, a contemplare “la luce fioca / di ogni Tramonto”, attendendo, “sempre con lo stesso coraggio, determinazione e volontà”, i bagliori di un’ “Alba” che ancora una volta “desteranno in Lui meraviglia, stupore, commozione per il Cosmo tutto”. Un ardire, un coraggio che sostengono l’autrice rinfrancata dagli “obblighi  / che costringono” (Il treno ha fischiato). La nobile figura del suo Maestro “senza meta”, Gonzalo Alvarez Garcia, ispira, poi, i versi di Errantia. La rinascita dell’alba conclude un’ appassionata consolatoria (Silenzio), tenera esortazione a una Dirigente perché cerchi la pace “eliminando ogni falsa speranza”. E il dramma del vivere, la crisi di un io consapevole che “l’esserci / teatro già è°, riflesso nel dipinto di “un flusso vitale / che travolge anche la forma” trova accenti ammirati in Pirandello. Chiude la silloge, nel segno dell’attualità, La durlindana del dolore, con una amara, suggestiva sequenza impressionistica che scolpisce in successione assorta di visioni, riflessioni e accenti gnomici, il ritmo tragico di un femminicidio in cui “si specchiano / nuovi labirinti”.
Il dipanarsi della “nitida spola” della sua esistenza, ove le pene sono costellare da “indicibili gioie”, del tutto aliena dall’indulgere a quello che Luca Caniato definisce “autocapestro metrico”, si manifesta in un ductus lirico che ne asseconda con docile duttilità il vario articolarsi: fluisce spesso entro un periodare limpido e disteso, o si compiace talora dell’ariosa misura di un adagio descrittivo, e raramente si rapprende, caricandosi di ellissi e di analogie, in una tensione verso l’essenzialità, che rischia di comprometterne la pervietà semantica, ma non mai smarrisce il suo timbro personale. Anche in questa, come nella precedente silloge, il susseguirsi delle inquietudini, delle emozioni e degli stupori si rispecchia nella suggestione dello spettacolo iridescente della natura. Donde l’incanto di questa poesia nasce spesso dall’osmosi pacata tra l’intensità degli affetti e la variegata autenticità delle parvenze naturali, ma trova momenti di grazia anche quando la parola accarezza con la soavità tutta femminile la trepida vicenda di attese e delusioni, di commozione e “rinnovata speranza”. E questo sormontare – pur nell’ “odissea esistenziale” – della luce di albe e del fervore di speranze trova una parola chiave che ne sintetizza il faticoso emergere: “nonostante”. Accanto ad essa, significativamente rivelatori dell’oscillante vicenda psicologica  appaiono stilemi come “labirinto di dubbi fatali”, “inedia spirituale”, “l’estasi dei momenti d’oro”, “rigenerante futuro”, “madreperlati ardenti cieli”, “l’amara diaspora dialettica”: esempi felici di una oraziana virtù di incisivi accostamenti lessicali; mentre qua e là pare balenare, discreta, una nostalgia di canto nella suggestione di qualche assonanza (“prevale…andare”; “cedere…cenere”; “esistenziale…contemplare”) o di cadenze litaniche e di clausole monosillabiche.


Una silloge, dunque, questa, che rivela nell’autrice – come scrive nella dotta prefazione Gonzalo Alvarez Garcia – “la signora del suo stile”: essa, infatti, mentre conferma la scaltrita perizia letteraria e il profondo spessore culturale di Maria Patrizia Allotta, è segno inequivocabile di una singolare purezza spirituale e tensione metafisica che sanno tradursi in originalità di accenti lirici.

giovedì 26 gennaio 2017

Sandra Guddo, "Le Geôlier" (Ed. Vertigo)

di Maria Patrizia Allotta

 Così scrive Fëdor Michajlovič Dostoevskij: “L’amore è un tesoro così inestimabile che con esso puoi redimere tutto il mondo e riscattare non solo i tuoi peccati ma anche i peccati degli altri.” 
   Non sappiamo il parere di Sandra Guddo sul grande Autore russo, di certo possiamo affermare che circa l’amore e la redenzione la pensi esattamente come Lui.
     E lo dimostra con estrema semplicità nel testo dal titolo Le geôlier dove l’amore   - quello vero - oltre a redimere i peccati del protagonista riesce a generare una folata di speranza che, sfiorando i cuori di ogni singolo lettore, ben fa auspicare. 
   Non si tratta di ottimismo a buon mercato, né di vana illusione, o possibile  miraggio euforico. Nemmeno di abbaglio letterario o fallo romanzesco, oppure infingimento prosastico.
   Sembrerebbe piuttosto che la Scrittrice palermitana - già autrice, nel 2014, del suo primo libro dal titolo Tacco 12. Storie di ragazze di periferia (Hombre Edizioni) intraveda sinceramente - oltre la fragilità, la sofferenza, l’angoscia che pure offendono il genere umano al di là di ogni coordinata spazio-temporale - la possibile liberazione dal dolore, il pensabile riscatto esistenziale, la probabile salvezza dello spirito.   
    Infatti, nelle 168 pagine edite da Vertigo, il male - che pure è insistentemente presente nel testo e che certamente appartiene a molti personaggi i quali mostrando un vissuto psicologico particolarmente tormentato si muovono ora tra grettezze e volgarità, ora tra bassezze e trivialità, ora tra perfidia e crudeltà, raggiungendo lo svilimento della loro stessa entità e l’annullamento della propria essenza - sembra essere, paradossalmente, ontologicamente inesistente, ovvero, concepito da Sandra Guddo come nefasta assenza o privazione del bene, seguendo, forse, il grande insegnamento filosofico del doctor gratiae, Agostino D’Ippona, secondo il quale il “male di per sé non esiste. Altro non è se non la mancanza del bene”.  
   In effetti, mentre taluni personaggi del sopracitato testo, non avendo sperimentato i più alti valori esistenziali, rimangono a brancolare nel buio del peccato - “tra donne, fumo, alcol, droghe, gioco d’azzardo (…), mai stanchi dell’ebbrezza e dell’adrenalina che dà il rischio” - condividendo così l’assoluto male, altri invece, baciati dalla provvidenza divina, una volta identificato il vero bene si perdono in quella dimensione vitale luminosissima che solo l’autentico amore può donare.
   E’ ciò che capita, soprattutto, al protagonista, Cesare, “carceriere di se stesso”,  uomo ricco, colto, determinato e ambizioso, eppure “violento e deviato” capace di condotte bestiali per puro piacere il quale, tuttavia, nell’arco del tempo, si redime diventando “un uomo nuovo che è riuscito a perdonarsi attraverso la dolorosa via del pentimento che scaturisce soltanto quando si prende completa consapevolezza dei propri errori” e quando si trova “quella rete di salvataggio” data esclusivamente dall’autentico amore che la Nostra dipinge come una “ventata di area fresca per fugare i miasmi delle ferite infette e purulente; un gessetto colorato che traccia incantevoli arabeschi sul nero della lavagna”.   
    Ma non è tutto. La ricchezza del libro consiste nel fatto che l’Autrice di Le geôlier all’interno del significativo chiaroscuro dettato dal peccato e dalla redenzione, dall’odio e dall’amore, dal male e dal bene, dalla vita e dalla morte, con estrema disinvoltura inserisce - attraverso un linguaggio moderno e dinamico, immediato e semplice, sostanzialmente chiaro ma mai banale, lontano da costrutti baroccheggianti o effimere ridondanze - non soltanto un puntuale esame psicologico dei personaggi emblematicamente e simbolicamente indicativi del romanzo - dimostrando così ampie conoscenze in campo psichico e mentale - ma anche la trattazione di tematiche e problematiche relative a questioni sociologiche fortemente attuali e di grande interesse.  
   La crisi economica che attanaglia le industrie, il commercio clandestino delle armi, le diatribe interregionali, l’emigrazione e l’emarginazione, la vecchiaia e l’abbandono, la droga e l’alcolismo, la povertà, la separazione, l’adozione, la prostituzione, la violenza fine a se stessa, sono tutte questioni presenti e affrontate però con mano delicata eppure efficace.
   Infatti, all’interno del testo, non assistiamo a nessuna trattazione sistematica e ad alcun sviluppo organico circa le questioni psico-sociali, meglio, senza mai scivolare nelle forzature letterarie inconcludenti o nelle furbizia degli infingimenti, l’Autrice con penna lieve - quasi sommessamente e in perfetto equilibrio sintattico-stilistico - dona ai suoi lettori spunti di riflessioni etico-morali secondo l’insegnamento socratico del ti estì che, appunto, insemina il dubbio per intraprendere il cammino della possibile verità, e del dialogo, unico mezzo inevitabile per combattere sia la pirandelliana “incomunicabilità” che il montaliano “mal di vivere” e per promuovere, alla maniera di Haidegger, “l’idea della progettualità e della speranza”.
   E all’interno del testo - sembrerebbe a chi adesso scrive - in effetti il miracolo del dialogo costruttivo che riconduce alla progettualità e, quindi, alla speranza, avviene appunto attraverso il trionfo dell’amore che inevitabilmente si rapporta con il celeste, con il sacro, con il divino.  Con il vero e con il bello.     
   All’interno del testo, infatti, l’amore e la fede danno vita, “all’infinita misericordia di Dio” che non soltanto “cancella le colpe, ma libera dalla disperazione e permette di uscire dall’angolo, facendo ritrovare il coraggio e la volontà di andare avanti”.
    Un libro straordinariamente ricco, dunque, dove spunti psicologici e sociologici s’intrecciano con riflessioni etiche ed estetiche, dando vita ad un unico tappeto musivo il cui messaggio conclusivo, alla maniera di Jacques Prévert sembrerebbe il seguente: “La nostra vita non è dietro a noi, né avanti, né adesso, è dentro”, pertanto “bisognerebbe tentare di essere felici, non fosse altro per dare il buon esempio”.
   E certamente Sandra Guddo con Le geôlier il buon esempio l’ha dato intonando, felicemente, un inno al bene e all’amore e un canto alla salvezza e alla redenzione.      


                                                                                                  Maria Patrizia Allotta      

La poesia filosofeggiante di Giacomo Leopardi

di Maria Patrizia Allotta

Che Leopardi sia uno dei massimi esponenti della letteratura internazionale nessuno potrebbe metterlo in discussione, che sia anche filosofo, invece, è stato ed è a tuttora motivo di accesi dibattiti.
   Infatti, relativamente alla dimensione filosofica rintracciabile nell’opera leopardiana non tutti i critici sono d’accordo, tanto che si potrebbe parlare di due tendenze sostanzialmente opposte: da un lato ritroviamo il vecchio filone della cultura laicista italiana che intravede un senso filosofico scarsamente significativo e, comunque, poco profondo, originale, costruttivo; dall’altro, invece, rintracciamo valutazioni estremamente positive circa il filosofare leopardiano.    
   Infatti - sebbene la qualifica di ‘filosofo’ gli sia stata attribuita già in vita dalla cerchia degli amici che conoscevano bene alcune sue opere e sia stata variamente espressa in alcune pagine dello stesso Leopardi dove ricorre l’espressione «il mio sistema filosofico» e nonostante lo stesso Giordani nel Proemio al terzo volume dell’edizione postuma delle sue Opere lo ricordi come «sommo filosofo» - per Francesco De Sanctis, solo per fare qualche esempio, la creazione lirica, è l’unica produzione genuina e sinceramente autentica del Leopardi, modesta e artefatta appare, invece, quella filosofica; così pure per Benedetto Croce il quale aggiunge, tra l’altro, che la poesia del recanatese pur oscillando tra filosofia e letteratura, non riuscì mai, a tenere la rotta dell’autentico logos.
  Per Giovanni Gentile, all’opposto, soprattutto nelle Operette morali, Leopardi appare come valido e interessante filosofo, così come per Adriano Tilgher il quale sostiene che proprio nello Zibaldone esiste una filosofia che certamente non è né sistematica, né elaborata, né procede per astrazioni, ma fortemente immediata,  comunicativa, costruttiva.
   Nel dopoguerra si assiste ad una sostanziale rivalutazione della filosofia leopardiana, grazie prevalentemente agli apporti della critica storicistico-marxiana, la quale mette in risalto la produzione posteriore al ’30, rinforzando la pregevolezza del poeta impegnato e progressivo contro quello isolato e solitario dell’idillio.
   In tal senso  saggi interessantissimi sono quelli scritti da Cesare Luperini  Leopardi progressivo; da Walter Binni  La nuova poetica leopardiana;  da Sebastiano Timpanaro  Alcune osservazioni sul pensiero di Leopardi e da Carlo Muscetta  Schizzi, studi e letture,  contributi questi ora menzionati, contrassegnati da una decisa matrice ideologica, che individua nel Leopardi un pensiero fortemente concettuale, che non solo non è da ostacolo alla sua poesia, ma piuttosto è il suo vitale nutrimento, pensiero concettuale, tanto profondo, che può essere elevato al rango di filosofia.
  Interessanti anche gli studi condotti da Emanuele Severino - non storicista né marxista - il quale magistralmente ha saputo mettere in luce notevoli elementi comuni tra il pensiero del nostro poeta a quello di altri indiscussi grandi filosofi europei, evidenziando che se è vero che la riflessione filosofica non prevede scomparti predeterminati ma piuttosto una straordinaria espressione dello spirito umano dai confini mai fissi, allora possiamo sostenere con estrema serenità che Leopardi è un grande filosofo perché ha fatto della semplice parola verbo di speculazione.    
    Quindi, mentre per alcuni studiosi Leopardi - pur possedendo le attitudini e gli strumenti culturali, le competenze e le abilità - non può essere considerato filosofo per il fatto che la sua volontà di speculazione è alterata già in potenza - sollecitato da motivi biografici e storico-culturali - avendo assunto sin dall’inizio un atteggiamento valutativo ostile nei confronti dell’esistenza e dei valori più alti e nobili che questa manifesta, valori molto spesso considerati alla stregua di miti o peggio inutili illusioni, per altri, Leopardi è un autentico esistenzialista capace di affrontare soprattutto questioni legate alle tematiche di ordine pratico-morale, quali per esempio, l’indagine sulle ragioni prime e la cause ultime della vita, il senso dell’esistenza, se è possibile raggiungere la felicità, quali sono i veri valori esistenziali, se dopo la morte ci attende qualcosa o ci aspetterà il nulla eterno. 
   E soprattutto lo Zidaldone - che riconduce direttamente a pensieri sull’anima, sulla metafisica, sulla religione, sulla natura, sulla morale, sulla scienza, la conoscenza, il linguaggio, sui problemi antropologici, sociali e politici, sull’universo definito da Lui stesso “un bruscolo in metafisica” - ben potrebbe configurarsi come vero trattato filosofico, pur non essendoci una struttura portante sistematica e organica, come d’altronde in molti altri intellettuali più comunemente definiti filosofi.
  Né si può negare che manchi a Leopardi lo stile filosofico e la forma e la sostanza del filosofare, tanto che alcune sue pagine, specie quelle relative alla Teoria del piacere, sono di tale inclemenza e concretezza che sembrano stilate dalla penna di Hume, Leibiniz, Locke.
   E in effetti, molte pagine scritte dal Leopardi, potrebbero sembrare poco inerenti agli sviluppi della filosofia del XIX secolo, solo ad una lettura fugace e poco attenta, o a chi non ha avuto la fortuna di studiare la storia del pensiero dalle origini ad oggi, perché, in realtà, la sua speculazione non solo riprende tematiche e problematiche tipicamente tradizionali, ma si apre verso nuovi orizzonti meditativi che saranno motivo di dissertazione dei filosofi a lui contemporanei o successivi quali, per esempio, Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger. 
    Per esempio, disseminati nei vari scritti, si celano magistralmente nozioni basilari appartenenti alla storia della filosofia greca, tra cui anche i concetti di “materia” e di “natura” che inevitabilmente riconduce al termine ellenico “physis” e al suo “divenire”, concetto quest’ultimo molto radicato nel nostro poeta il quale molto prima di Nietzsche, quasi sottovoce, sommessamente, cautamente, ritorna ai greci e rientra appieno nella trattazione del pensiero Occidentale.
   Infatti, nel nostro Giacomo è da notare il nucleo concettuale legato al “divenire” e al “nulla”, nucleo sviluppato poi, in modo pregevole, dal soprannominato pensatore tedesco, secondo il quale il “suddetto carattere transeunte degli enti ne presuppone uno di incondizionata innocenza: il realizzarsi delle cose e la loro distruzione è puro fatto, puro accanimento senza perché, il gioco della natura che non può essere vinto da alcuna arte dei (…) mortali. E accanto a questa evidenza inoppugnabile, ossia all’argomento del “divenire”, e come conseguenza di essa, sta quella per cui tutto è nulla: tutte le cose dell’esistenza provengono dal nulla e ad esse fanno ritorno e quindi, per via del loro essere nulla, passato e futuro sono nulla, un solido nulla.
   Esso stesso è principio di ogni essere, dunque, e perciò - esattamente come nel Leopardi il quale nelle Operette morali scrive testualmente: Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obiettivo il morire. Non potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturiscono le cose che sono. (…) tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta, e un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso - non si può porre alcuna verità incontrovertibile e assoluta, nessun principio di conoscenza, nessuna verità”. (E. Severino). 
    E sempre sulla scia dei probabili insegnamenti del Leopardi, Nietzsche dirà che le illusioni dell’arte sono la condizione unica ed essenziale della sopravvivenza: “il vero mondo, egli scrive, è falso, crudele, contraddittorio! e noi abbiamo bisogno della menzogna per vincere questa verità, cioè per vivere. L’uomo deve essere per natura un mentitore, deve essere prima di tutto un artista”, un fingitore per dirla come Pessoa.   
   Però, mentre Nietzsche aggiungerà che al di sopra dell’uomo, che è destinato all’annichilamento, è possibile l’esistenza del “superuomo”, ossia di chi, valicando la natura di essere umano, esulta della totalità della vita, Leopardi, nel suo “pensiero eternamente in movimento”, che certamente muta a seconda dei periodi e delle vicissitudini provate, dà vita all’etica della solidarietà - che sarà il tema centrale della Ginestra - etica concepita come puro estremo messaggio filosofico da inviare a tutti gli uomini di buona volontà, messaggio che auspica l’alleanza fra gli esseri umani, come dire, una social catena capace di unire, in un unico abbraccio, i mortali affinché sia possibile fronteggiare l’empia natura, l’infelicità, il dolore e soprattutto la noia.     
    Concetti, quest’ultimi che lo avvicinano straordinariamente a un altro grande filosofo quale è Schopenhauer secondo cui se per caso cessa il dolore, non subentra affatto il piacere, ma qualcosa di peggio, ovvero la “noia”.
   Il dolore, infatti, non esclude che l’uomo cerchi e speri di affrontarlo, mentre la noia è angoscia e disperazione. E allora, per Schopenhauer così come per Leopardi, la vita oscilla inesorabilmente come un pendolo tra il dolore e la noia, in un eterno meriggio privo di tramonto ristoratore dove, comunque, non c’è spazio per la felicità che è intesa come semplice assenza momentanea dell’affanno.
    Ma, a questa visione esistenziale certamente amara si contrappone la sopracitata etica della solidarietà, ovvero la necessità di un’autentica solidarietà umana di fronte al destino, etica la cui prima espressione filosofica la rintracciamo già nel 1827,  (prima ancora che nella Ginestra) nel Dialogo di Plotino e di Porfirio, basato sulla tematica relativa al suicidio e volto a specificare le ragioni che lo disapprovano come possibile soluzione al dramma esistenziale.
  Scrive Leopardi: "Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora". 

   Citazione questa che ci aiuta, comunque, non solo a sminuire la visione nichilistica leopardiana che appare oggi, più che mai, infondato luogo comune, insicuro stereotipo e inconsistente cliché, ma a lottare contro l’accusa di misantropia rendendogli difficile il titolo di filosofo.     

   Infatti, senza bisogno di ricorrere alla critica, in una famosa pagina dello Zibaldone, lo stesso Leopardi dissipa con forza i sospetti di nichilismo e misantropia di cui era fatto oggetto il suo pensiero, così scrivendo: "La mia filosofia non solo non è conducente alla misantropia, come può parere a chi la guarda superficialmente, e come molti l’accusano; ma di sua natura esclude la misantropia, di sua natura tende a sanare, a spegnere quel mal umore, quell’odio, non sistematico, ma pur vero odio, che tanti e tanti, i quali non sono filosofi, e non vorrebbero esser chiamati né creduti misantropi, portano però cordialmente ai loro simili (…). La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all’origine vera dei mali dei viventi."

   Ma non è tutto. Nella dialettica leopardiana negare la sua religione è negare la sua stessa poesia, che è preghiera cui nessuno risponde, ricerca senza alcun risultato, accusa che precipita nel vuoto e che pure misteriosamente risorge.
   Il rifiuto del poeta di credere - per dirla alla maniera di Divo Barsotti originale esegeta nel nostro Giacomo - è provocazione a Dio perché si riveli.
    Difatti, di fronte alle illusioni di questa vita, la sua filosofia diviene sì angoscia, smarrimento e solitudine, ma anche commovente trattazione teologica, epifania, emozionante testimonianza religiosa, dove per religione non si intende un inutile complesso di credenze e di pratiche relative alle cose sacre, ma piuttosto sentimento naturale, intenso, intimo, ineluttabile, che “induce l’uomo a superare la dimensione del sensibile e del temporale e percepire l’esistenza di una realtà superiore per trovare in essa la risposta ai più radicati dilemmi dell’animo umano: senso della vita e della morte, bisogno di verità e di amore, ansia di purezza e d’infinito” (D. Barsotti). 
     E in effetti, il suo vero credo, la sua profonda testimonianza per una ricerca di perfezione, il suo senso di purezza e d’infinito è quello dell’esserci - proprio alla maniera di Heideggerlasciando un segno, un’impronta, un’orma, attraverso le scelte, le possibilità dei rapporti, la progettazione, la trascendenza, i necessari dubbi.
     Mi piace concludere citando alcuni  frasi e aforismi leopardiani che ci fanno intendere, da soli e senza bisogno di alcun commento, la grande autenticamente dimensione filosofica di Giacomo Leopardi:
  
    …calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogni inganno puerile e ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera…


***
Io non mi sottometto alla mia infelicità, né piego il capo al destino, e vengo seco a      patti, come fanno gli altri uomini […]. Né in questo desiderio la ricordanza dei sogni della prima età, e il pensiero d'esser vissuto invano, mi turbano più, come solevano.
Se ottengo la morte morrò così tranquillo e così contento, come se mai null'altro avessi sperato né desiderato al mondo.
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   Sono convinto che anche nell'ultimo istante della nostra vita abbiamo la possibilità di cambiare il nostro destino.

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Tutto è follia fuorché il folleggiare. Tutto è degno di riso fuorché il ridersi di tutto.
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Chi ha il coraggio di ridere è padrone del mondo.

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Io non ho bisogno di stima, né di gloria, né di altre cose simili;
ma ho bisogno d'amore.

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I momenti migliori dell’amore sono quelli di una quieta e dolce malinconia,
dove tu piangi e non sai di che…
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Il desiderio che ha l’uomo di amare è infinito perché
l’amore, anche profondo o disperato, è sempre dolcissimo.

   Allora, alla luce dei frammenti, probabilmente la filosofia leopardiana manca di organicità e sistematicità, certamente è influenzata dal suo dolore e dalla sua sofferenza, ma sono proprio dolore e sofferenza che, anziché subordinare negativamente il suo pensiero (come vorrebbero gli idealisti e i romantici) faranno sì che egli indaghi intensamente e sentitamente sui problemi esistenziali della vita per mezzo della parola lirica, della poesia, del canto che rimangono autentico mezzo di rinascita, di resurrezione, di epifania.

  Restiamo convinti, dunque, che quello del Leopardi rimane, un “pensiero poetante”, o anche una “poesia filosofeggiante” di eccezionale valore, così come di eccezionale valore è egli stesso, “Il giovane favoloso” (così come lo definisce Mario Martone nel suo recente film) capace di entusiasmare lo spirito e accarezzare dolcemente ogni    cuore in ricerca.