venerdì 10 novembre 2017

Toniella Lamartina Giacalone, "Le briciole della storia"

di Maria Patrizia Allotta

“Le briciole non provocano rumore e vengono disperse facilmente da un fiato di vento e dalla ramazza del tempo. È gran fortuna se talune di esse riescono a conseguire il privilegio di una pur breve sopravvivenza tornando a rotare nel sistema solare nel quale e per il quale ebbero la loro parte e la loro luce”.
   Così si legge nel libro di Toniella Lamartina Giacalone intitolato Le briciole della storia.
   La logica filosofica dell’Autrice - che sembrerebbe allieva tanto di Anassimandro di Mileto quanto di Eraclito - è convincente, infatti, le briciole appartenenti a qualsiasi ente sono taciturne, riservate, mobili, minuscole. Spesso non reggono al ritmo del tempo, a volte si disperdono, in taluni casi svaniscono per sempre, in altri, invece, ritornano - magari in un momento successivo - per far parte nuovamente di quell’Universo grazie, probabilmente, a quel movimento incessante, a quella indicile forza, a quell’infinito vigore che anima eternamente il mondo.
   Il sinolo di materia e forma della briciola, dunque, potrebbe diviene, trasformarsi, cambiare, ma certamente la sua essenza rimane intatta nel tempo se determinata da quella legge assoluta governata dal logós.
    E sicuramente dal logós sono governate le schegge di quei ricordi, le scaglie di quella memoria, le squame di quella reminiscenza che - se pur trascurate, obliate e omesse - riaffiorano improvvisamente nella mente di chi le ha vissute intimamente per essere poi altrettanto intimamente rievocate o magari donate al prossimo semplicemente per il gusto di esserci.   
   E di ápeiron, di pneuma vitale, appunto di logós, sono le briciole di Toniella, ritrovate - non per caso ma per destino - in quello studio “pieno di ricordi e vita” del suo amato Manlio, dove in uno “scrigno”, recupera alcuni essenziali frammenti memoriali capaci non solo di ricostruire le sue vicende personali fatte di gioie e affanni, ma anche di rigenerare la storia comunitaria fatta ora di felicità ora di dolore, ora di odio ora di amore, ora di vita ora di morte, in una visione totalizzante fortemente suggestiva.   
    Non granuli preziosi, né perle rare, neppure pepite insolite, allora, quelle che troviamo nel libro della Lamartina Giacalone, ma umilissimi pezzetti, minuzzoli, semi - presentati al lettore attraverso un linguaggio chiaro, scorrevole, quasi confidenziale e per questo infinitamente vero - che riconducono alla magia delle tessere di un mosaico, le quali prese singolarmente potrebbero risultare insignificanti ma unite insieme, nella meraviglia del tappeto musivo, risultano indispensabili, necessarie, fondanti per le manifestazioni transeunti. 
     Un mosaico di storie, si diceva, raccontate - in un’anomala stazione ricavata, tra la fantasia e la disperazione, nei meandri di un ospedale palermitano - da malati dimessi ma rispettosi, trascurati e ignoranti eppure saggi e virtuosi, stanchi tuttavia ancora vivi, che insieme riescono a intessere un intreccio insolito di soggettività e oggettività, concretezza e fantasia, realtà e mito, secondo quel modello letterario altamente intellettuale tanto caro al Boccaccio secondo il quale “cortesia par che consista negli atti civili, cioè nel viver insieme liberamente e lietamente, e fare onore a tutti secondo la possibilità”.
   E in effetti, le novelle raccontate liberamente secondo le possibilità di ciascun infermo-narratore, non solo fanno “cortesia” perché propongono un ideale di vita fondato sulla nobiltà e sulla dignità dei modi e dello spirito e su una onestà che è signorile decoro, compostezza e misura intima, ma rappresentano, anche, lo spettacolo vario e multiforme della storia umana che in quanto tale si unisce a quella visione mitica e mistica certamente eterna.   
   Nelle pagine scritte da Toniella Lamartina Giacalone, infatti, pur essendo sottese, le analisi culturali, morali e teologiche e pur non apparendo evidenti le trattazioni sociologiche e psicologiche di fatto, in realtà, l’atteggiamento è quello di chi osserva lo scibile con lucida intelligenza e insieme con intima complicità soffermandosi con maggiore interesse sui modi dell’umano agire, sullo spettacolo sempre nuovo e avvincente della vita, sul destino che si ripete, sulle tradizioni e sul mito, insomma, su quelle briciole della storia raccontate sia attraverso un tono commosso, sia attraverso un tono ironico, tanto attraverso un tono nostalgico, quanto un tono maliziosamente divertito.    
    E certamente ciò che resta al centro dell’esperienza vitale della lettura di questo libro è l’amore incondizionato: quello narrato più o meno consapevolmente dai protagonisti delle novelle, l’amore del “popolo vestito di bianco” nei confronti dei malati, l’amore dei parenti e degli amici a favore dei sofferenti, l’amore coniugale e filiale che spinge l’Autrice a pubblicare il testo in memoria dell’insostituibile Manlio e dell’impareggiabile padre Mariano, valido uomo di cultura, l’amore nei confronti dei più bisognosi tanto da offrire la metà dei ricavi della vendita del testo in parte per l’acquisto di attrezzature per il teatro dell’Istituto Penale Minore “Malaspina” di Palermo ed in parte per l’Unione Italiana Lotta alla distrofia Muscolare sez. di Palermo-Onlus e, infine, l’amore che Toniella dona ai suoi lettori i quali magicamente si ritrovano - tra miti e leggende - in compagnia di muse e ninfe in un onirico mondo greco calato in una realtà tutta autoctona e di autentica dimensione umana. 

mercoledì 20 settembre 2017

Maria Patrizia Allotta, "Il giglio e l'ortica" (ed. Thule)

di Elio Giunta

Accade assai spesso che quando ci si trova con in mano un nuovo libro di versi si avverta in primo luogo un certo disagio, anzi addirittura un senso di ripulsa. Questo perché purtroppo si pubblicano troppi libri di versi a perdere e si ha poca fiducia di trovarne qualcuno buono; ma soprattutto perché si è entrati nella convinzione che, dati i tempi barbari che viviamo, far poesia ed occuparsi di poesia sia troppo fuori moda e inutile. Ma accade anche che, mentre si sfogliano le pagine dell’ultimo libro pervenuto, si resti presi e piacevolmente intrigati a proseguire nella lettura, avendo scoperto singolarità di ispirazione e magari quella pacatezza ed armonia di dettato stilistico che ci riporta ai caratteri della poesia vera, quella a cui restiamo da sempre legati e che non vogliamo siano ancora traditi. E’ il caso di questa silloge di Patrizia Allotta. Essa offre pagine che suscitano immediata partecipazione, giacché fanno avvertire il vibrare sincero di “corde di nostalgia in arpa armoniosa”, cioè con esse si stabilisce senz’altro quella distanza memoriale dell’io con le cose, con la natura, il tempo, il senso dell’esistenza, e con cui il disincanto si fa elezione morale e ragione di esito melodico della parola.

Nell’opera i testi sono distribuiti in due sezioni: l’una ove ogni percezione del reale, intima o riflessiva, pare poggiare più sugli effetti della disillusione, col farsi osmosi tra spirito e realtà appunto rimeditata; l’altra, ove questa realtà è per lo più recupero di incontri umani, anche con le proprie frequenze familiari –indizio questo di una poesia che può restare tale e di buon livello senza pretese di complessità intellettualistiche- ; ma l’una e l’altra risultano realizzate con rara misura di accenti e di uso dell’immagine, con omogenea delicatezza tonale. Ed è soprattutto per questo che il libro può contare come lezione di un verbo lirico che ancora ci persuade e, diciamolo pure, ci conforta.

martedì 5 settembre 2017

Carlo Puleo, "Ignazio Buttitta il presente della memoria 100 foto e 18 racconti", (Ed. ISSPE, 2016)

di Maria Patrizia Allotta

 Tu non leggi semplicemente un libro. Tu hai come la sensazione di ascoltare una voce narrante che con pathos racconta le memorie della sua stessa anima, inoltre, contemporaneamente, percepisci riproduzioni figurative che solo l’occhio attento del vero artista può cogliere per poi donarle, nel tempo, a chi sa celebrare l’irripetibilità e l’importanza dell’attimo fuggente.  

Tu non sfogli soltanto un testo. Tu ti perdi in quel magico intreccio fatto di parole e immagini, dove la parola diventa versus, ovvero, viaggio iniziatico, cammino mistico, fede che intuisce la Tradizione rivelata generando l’eterno ritorno, come dire, quasi credo spirituale che sostanzia il divenire dell’esistenza, mentre l’immagine diviene forma del passato, sembianza di ciò che non può essere dimenticato, aspetto vitale, rappresentazione raffinata perché unione d’armonia e redenzione.
Tu non tocchi esclusivamente un’opera artistica. Vai oltre, perché naturalmente riesci ad avvertire l’immediatezza del linguaggio, la lucidità dello stile, l’espressività del semplice idioma, la linearità della tecnica, l’assenza dell’inutile allitterazione, il mancato vezzo retorico, la chiarezza dell’immagine, la preziosità dello scatto improvviso, tutti elementi questi che meglio fanno lambire le emozioni esplicitate, la palese sincerità, la schietta realtà storica raccontata senza inutili infingimenti e, soprattutto, senza quel falso inseguimento delle mode letterarie che spesso involgarisce i testi, banalizza i valori, esaspera il lettore.
Ma non è tutto. Tu non sei in presenza del ricordo dettato dalla sterile cronaca o dall’avulsa registrazione di eventi, oppure dalla estranea individuazione dei fatti, tutt’altro - così come perfettamente suggerisce Stendhal nel suo capolavoro intitolato Henry Brulard dove si celebra l’importanza del “bel ricordo”, o come magistralmente rammenta Marcel Proust in Alla ricerca del tempo perduto dove si officia “il vero valore della rievocazione malinconica del passato perduto”,  oppure come attesta nei suoi Racconti lo stesso Giuseppe Tomasi di Lampedusa che della memoria ne fa letteratura - tu sei davanti alla sublimazione delle rimembranze che in quanto tali esaltano quelle virtù tanto più comuni quanto più nobili, sei davanti a quelle memorie che riconducono alle origini e alle tradizioni autoctone, sei  davanti a quelle rievocazioni soggettive che si dilatano fino ad abbracciare l’oggettività universale divenendo, forse inconsapevolmente, pneuma vitale per il nostro esserci.
E ancora. Tu non leggi per subito dopo dimenticare, così come molto spesso ultimamente capita. Tu leggi e inevitabilmente annoti, nel cuore e nella mente, l’alto magistero che abbraccia, in buona sostanza, tre insegnamenti fondamentali: l’importanza della ricostruzione storica, la preziosità del rapporto dialogico tra maestro e allievo, la rarità esplicativa dell’arte.
Tre lezioni che - nello spazio di 125 pagine - s’intrecciano fino a formare un tessuto musivo di carattere pedagogico di alta qualità.
La prima lezione, si diceva, è data dall’esaltazione dell’importanza di quella ricostruzione storica capace però di magnificare il mito dell’identità unitamente alla celebrazione delle proprie radici, del proprio ceppo, della propria terra che in questo caso è Bagheria, patria d’illustri artisti tra i quali - tanto per fare soltanto qualche esempio - si ricordano Renato Guttuso, Dacia Maraini, nipote del Duca di Salaparuta, Castrenze Civello, Giuseppe Tornatore e Ferdinando Scianna.
La seconda lezione - che inevitabilmente ci riconduce ai grandi insegnamenti socratici - è data dal dialogo continuo tra un anziano maestro e un giovane allievo.
Il giovane impara, l’anziano educa. L’allievo ascolta silenziosamente, convinto che il vero senso dell’insegnamento è dato dall’occasione di cogliere le virtù di chi conosce di più per intraprendere poi un cammino autonomo che si concretizza nella pratica della libertà; il Maestro, in modo austero, a volte severo, più raramente divertente - facendo leva anche sulla lezione di Rousseau - erudisce indirettamente, ammaestra informalmente, avvia, quasi inconsciamente, verso i difficili sentieri della vita.
Ma, nel leggere le pagine, ciò che più piace è il rispetto reverenziale del discepolo nei confronti del maestro, la sua ossequiosa disponibilità, la devota ammirazione, la fidata stima, la capacità d’ascolto e, soprattutto, la sincera amicizia che lega due generazioni sostanzialmente diverse eppure unita da un unico abbraccio.
Uno spaccato di vita d’altri tempi.
E sembrerebbe, inoltre, che mentre l’anziano educa il giovane al senso dell’umano dando prova della sua stessa poliedrica umanità, il giovane diviene più umano cogliendo l’umanità - a volte sorprendente - dell’anziano.
Infatti, attraverso diciotto racconti e 100 fotografie, l’Autore - che, per dovere di chiarezza è lo stesso giovane-allievo-artista - si diverte a mettere in luce il carattere ora illimitatamente spigoloso, ora infinitamente amorevole del vero protagonista del libro ovvero l’anziano Maestro-Poeta, anche Lui nato a Bagheria nel lontano 1899, uno dei più significativi lirici dialettali del ’900.
Ecco allora che l’anziano Maestro-Poeta viene colto e raccontato dal giovane Allievo-Artista-Autore ora nella sua quotidianità (A putia), ora nella sua straordinarietà (Nelle piazze della Sicilia); ora in qualità di maschilista-erotico (Visita alla casa di Ignazio), ora come esaltatore della bellezza femminile e della grazia del gentil sesso (La poetessa); ora come amante del sapere e della cultura (Una serata con Quasimodo), ora come ammiratore del Cosmo tutto e degli animali in particolare (Il poeta e gli animali); ora come soggetto insolito e burbero (Una recita a Palazzo Butera - Il divorzio dalle sigarette), ora come individuo sensibilissimo, perdutamente innamorato della vita e per questo contrario a ogni tipo di violenza e avverso ad ogni forma di guerra (Quelli del 1899).
La terza lezione, infine, è data dall’amore per l’Arte. I due protagonisti, uno affermato poeta dialettale e l’altro scrittore, scultore e pittore allora ancora in erba, per dirla alla Tommaso Romano, celebrano, entrambi, l’“Arte come l’unica possibile verità capace di promuove e svelare”.
Infatti, l’arte dello scrivere in versi svela l’essenza del Maestro, così la capacità di raccontare e fissare l’immagine attraverso le arti figurative rivela la vera natura dell’allievo il quale, in qualità di Autore, utilizza anche la fotografia che appare all’interno del testo, sia singolare mezzo capace di destare alla mente inesprimibili memorie sia come pregiato strumento capace di rappresentare l’anima di chi fotografa e di chi si lascia fotografare.
Scrive Christian Bobin: “… un libro così denso che, una volta chiuso, esso diventa lettore di se stesso. La sua presenza che ci irradia intorno a noi diffonde una profonda pace. Cosa contiene questo libro? Nient’altro che il perfetto racconto di una vita umana che si dispiega e che ci colpisce”.Ma nel leggere, nel toccare e nello sfogliare il testo intitolato Ignazio Buttitta il presente della memoria 100 foto e 18 racconti - edito dall’Istituto Siciliano Studi Politici ed Economici - tu assisti contemporaneamente al racconto di due vite umane: quella di Carlo Puleo e quella di Ignazio Buttitta.
Il primo è il giovane-allievo-artista nonché Autore del testo sopra menzionato, il secondo è semplicemente il grande Maestro.

  

martedì 29 agosto 2017

Il Giglio e l’ortica di Maria Patrizia Allotta: un dire essenziale nell’attesa dell’alba

di Giuseppe La Russa


Risulta ovvio come in ogni autore, poeta o romanziere, ricorrano stilemi, contenuti e parole che nel corso di una lunga produzione diventano il marchio di fabbrica dello stesso. Alla sua seconda opera in versi, si può già tracciare un piccolo bilancio per Maria Patrizia Allotta, poetessa che ha esordito nel 2013 con la silloge Anima all’alba e che nel 2017 pubblica, sempre con la casa editrice Thule, Il giglio e l’ortica.
Ma come in ogni percorso poetico – che certamente è anche di vita – la penna di Maria Patrizia Allotta appare più matura, più densa, nitida e chiara.
Ma procediamo con ordine, andando a scovare gli elementi di continuità con la raccolta precedente, Anima all’alba: innanzitutto una delle parti della silloge attuale si intitola Zolle dell’anima, come a richiamare immediatamente l’essenza stessa di un percorso. Inoltre è spesso presente in Il giglio e l’ortica l’immagine dell’alba, spesso citata come nella poesia Fiato all’alba, o semplicemente rievocata attraverso semplici ed essenziali pennellate; e pensiamo anche alla raccolta di testi dell’amico Tommaso Romano e da Maria Patrizia Allotta curata e intitolata Nel buio aspettando l’alba, speranza che non muore. Ma tralasciamo per un attimo queste osservazioni per riprenderle in seguito.
Si è detto di essenzialità: da una scorsa breve dei testi della raccolta, ciò che balza agli occhi è proprio la concisione del dire poetico. Sia chiaro che una tale cifra stilistica non si traduce affatto in povertà, ma è proprio il segno di una maturazione e di una crescita che passano attraverso le mutate esperienze di vita e che si proiettano, poi, nel dettato poietico e creativo. Nel corso di quattro anni, immaginiamo, nuove esperienze e nuovi orizzonti si sono affacciati nella sua vita e così, in Maria Patrizia Allotta, il bisogno è divenuta, probabilmente, questa essenzialità. Non è un caso che tra le dediche si trova quella a Fabio e al «suo dire essenziale» e che nel primo testo, il Giglio e l’ortica che dà il titolo alla raccolta, si legga: «E si cercano gigli essenziali».
Tra le marche stilistiche che la poetessa mantiene vive rispetto alla prima sua fatica letteraria vi è un verso breve, teso alla massima carica espressiva, l’abolizione quasi totale della punteggiatura e la disposizione a scalini riconducibile ad un autore come Mario Luzi, la cui lettura è probabilmente tra le più decisive. Ma ciò che appare evidente in questa nuova esperienza poetica è il discorso asciutto, conciso, ma proprio per questo forte, pregnante, denso. La parola è simbolo, è epifania del sacro, momento rivelativo, dipinto; magistrale appare così l’incipit della raccolta con l’avverbio di tempo ‘ancora’: esso dona l’idea di una continuità nel tempo e nello spazio, è un continuum esistenziale e letterario, è un percorso che ha raccolto e che raccoglie nuova vita.
Il titolo offre, inoltre, un forte spaccato dei contenuti presenti nella raccolta: da un lato il giglio, simbolo di lucentezza, delicatezza e bellezza, e dall’altra l’ortica, metafora di asprezza e difficoltà. Una antitesi, nel titolo, che viene calata nei vari testi della raccolta; osserva, a proposito, Tommaso Romano nella postfazione come in questa metafora vi sia «tutto l’universo di una poesia alta e solenne, intima e dolente, forte e umile al contempo». Non si tratta di semplice contraddizione, ma di uno sguardo profondo e serio sull’esistenza, sulla quotidianità fatta di momenti alti e bassi, di bellezza e della presenza del turpe, di immanente e trascendente. Ma nella maturazione di uno spirito, la potenza dello stesso sta nell’accettare «ogni sfida senza viltà», come si legge in Fiato all’alba attraverso una probabile citazione di Montale.
Se è vero che il tempo è logorio, se gli anni scavano solchi e producono nostalgie, la poesia di Maria Patrizia Allotta è sempre viva e alla ricerca di un approdo, di un risveglio, di una resurrezione. Ecco perché, si diceva, la parola è essenziale e diviene via di accesso all’infinito, all’immutabile, percorso preferenziale per il Senso; ecco perché l’alba, per riallacciarci al discorso precedentemente lasciato in sospeso: essa rappresenta l’inizio che quotidianamente si ripete, nella consapevolezza che, come scrive Gonzalo Alvarez Garcia nella prefazione, «tutto si rinnova, tutto cambia, tutto rimane».

Poi di fiato d’alba
apre luce al sole
                                                       finalmente.
Canto dal petto irrompe
resuscita fervore intenso
nuovo entusiasmo
si avverte.

Nei versi proposti, e in cui si nota l’attenta disposizione, l’anima infinita può osservare l’affacciarsi continuo della speranza, la quotidiana gioia di un perpetuo inizio, il perenne rinascere della natura, può diventare natura essa stessa, come nell’emblematico testo Risorgere«Mi piace esistere/oltre la palude/come ginestra in fiore.// E tra l’effluvio/di antiche radici/risorgere/nella mia stessa valle/tra i soliti soffi vitali/che conducono/a raggi ilari/spazi aprendo/verso nuovi orizzonti/».

Il percorso di cui si diceva prima, prima esistenziale e poi letterario, è giunto a maturazione, ma non possono negarsi nuovi orizzonti, lo sguardo è sempre rivolto al domani, sempre rivolto in avanti. La disposizione stessa dei versi è un continuo rincorrersi tra gli stessi, pronti a generare e ad autogenerarsi, scontrarsi ed incontrarsi; l’anima della poetessa si schiude, all’alba, come fiori novelli, come giglio delicato che osserva le ortiche, che vive la pesantezza e l’asprezza, ma che in un continuo parto sa accogliere un soffio vitale mai assopito, capace di obbedire perennemente alla vita, in grado di «contemplare/la luce fioca/di ogni tramonto/con lo stesso coraggio/aspettando poi/i bagliori/di qualsiasi alba/che desteranno//nella commozione/ancora/la meraviglia dello stupore/per il Cosmo tutto//».

sabato 29 aprile 2017

Giuseppe Pappalardo, "Contraventu" (Ed. Arianna)

di Maria Patrizia Allotta

  
Tra la palude e lo stagno, tra il deserto e il vuoto, tra le macerie e le rovine, ecco stagliarsi l’autorevole opera di Giuseppe Pappalardo.
    Uno scrigno pregiato il suo Contraventu. Canzuni, sunetti e strammotti siciliani che, fortunatamente, si distingue dagli infingimenti artistici artefatti e si allontana da quelle manipolate mode letterarie che sempre più calpestano la dignità del patrimonio umanistico. 
    Così, con estrema semplicità e con altrettanta sensibilità - mentre la tradizione erudita sembra ormai annullarsi e l’inutile specialismo avanza inesorabilmente - il nostro Autore, senza l’albagia dell’ambizione, piuttosto, nel rigore della glottologia e nell’impiego attento delle fonti, quasi titanicamente lotta - come pochi sanno fare oggi - per la salvaguardia della tradizione autoctona e per la tutela della cultura, quella vera, però.   
    E da intellettuale che vive autenticamente il sapere e produce incondizionatamente la conoscenza riesce, attraverso il suo versus, a donare quelle percezioni e quei sentimenti, quelle emozioni e quei tormenti, quelle gioie e quei dolori che, pur nascendo da soggettive condizioni vitali, abbracciano l’oggettivo esistenziale attraverso un dialogo musicale delicatissimo che avviene con se stesso, con gli altri e con il Cosmo tutto.
   Un’architettura importante, dunque, dove recuperiamo saga ed epopea, simboli e immagini, spirito e natura, ma soprattutto dove l’io si unisce con l’altro, l’intimismo s’intreccia con il sociale, il contingente si abbraccia all’Universale, proprio attraverso quella parola dialettale che meglio di qualunque altra parola sa rappresentare i pungoli ispirativi, la tensione creativa, le vocazioni personali, l’intimità dell’anima.
   E quella di Giuseppe Pappalardo è parola dialettale cristallina, nitida, chiara, vera - certamente non studiata a tavolino, non ingozzata da scienza dialettologica fine a se stessa, né tormentata da assilli grammatologici invadenti - paragonabile ad un gioiello da incastonare tra le opere che duellano contraventu per contrastare il tramonto del mondo siciliano.   
   In effetti, più che un “pirriaturi ca tàgghia e ntàgghia li massi cchiù duri”, o un “tissituri ca ntrizza e tessi ccu lana e fila d’oru”, oppure un “cavaleri ca cummatti ntra vìzzii e farsità suttâ bannera di la libertà”, Giuseppe Pappalardo è un “pueta” convinto che “chistu è lu tempu di cantari n coru ca un si campa d’òdiu ma d’amuri. É tempu bonu ppi turnari arreri. È tempu ca Ddiu duna ppi capiri,(…). È tempu di canzuni e di puisia”.
   Infatti, considerato il tempo infame, la corruzione degli uomini, la violenza fine a se stessa,   l’indifferenza davanti alla solitudine, al dolore e alla morte, Giuseppe Pappalardo - ora con tono sommesso e curvato davanti all’angoscia, ora con tono vigoroso e ritto dinnanzi all’affanno  -  sembra invocare un mondo migliore, possibilmente senza “na varca di culuri” destinata inesorabilmente “nfunnu ô mari” dove “c’è sulu scuru e friddu”, dove “Nun c’è un tabbutu a spadda di l’amici”, dove  nun c’è un parrinu ca binidici”; senza “misteri scilirati”, “nutrichi tutti ossa e panza”, “mischini scàvusi e sfardati”, “figghi c’annu fami”; insomma, senza “cori tinti”.
   Un mondo diverso, privo, finalmente di “genti (..) ca campa ittata ô ventu, a la vintura, ca dormi nta na casa senza mura”, “genti ca rriipitìa pp ‘un pizzuddu di pani, genti senza dumani”; ma soprattutto privo di “òmini pupi, c’abbàllanu a cumannu, ccu m-pedi, senza sonu, supra un filu di corda, mpisi a-ll’artaru di li so’ disìi e di lu ddiu dinaru”, privo di “òmini lupi, ca di la fami ‘i l’àvutri si ìnchinu la panza nzinu a quannu nun ncòntranu la santa fàuci e l’ùrtima vilanza”.     
   E con parole sorrette certamente da una profonda fede cristiana, in chiave di Strammotti, Pappalardo immagina - facendo magistralmente immaginare - un esserci insieme, magari senza La superbiaLa tinturìaLa mmìdiaLa rràggiaLa lussuriaLa gulaLa lagnusìaLa farsitùtini, in un cosmo auspicabile dove sia possibile - così come già ama fare il nostro nelle sue Canzuni e nei suoi Sunetti - colloquiare con gli amori prediletti (Quannu è notti, Iu sugnuA me frati, Pinzannu a me matri) o con quella natura che tra “lu vucilìzziu ncuttu di l’ariddi, un abbàiu di cani, lu rispiru dô ventu, lu silènziu dô tempu” ancora “duna corda a lu rralòggiu di li (…) pinzeri, aspittannu”, in quella dimensione totalizzante dettata dalle rimembranze radicate (Torna NataliLu me paisedduE io Luntanu) che molto confortano. 
   Certamente, in quel flusso di coscienza estremamente significativo che rileva a tratti ora fiducia, speranza e miraggio, ora dubbio, angoscia e patimento; il quell’attesa di nuovi pensieri che s’intessono preziosamente con il sogno e la realtà, con la letizia e lo spasimo, con la vita e la morte, troviamo, spesso, un uomo narrante “stancu di sta vita mùscia, di parrari di ventu ca non ciùscia, di càlia e di simenza, di dinari can un àiu e nun pozzu vadagnari (…), stancu d’annati nùtili e siccagni, di nèsciri dô focu li castagni, di sbàttiri la testa contrè mura, di sòffriri pilànnumi a vintura”.
   Un uomo narrante, si diceva, che non canta “cchiù dd’amuri spinziratu, spògghiu di sdegnu e rriccu di ducizza, di quannu stu cori turmintatu nun lacrimava sangu a stizza a stizza”, adesso, intona versi per quell’ “amuri lisu, dispiratu, palumma bianca c’abbulò luntanu, cavaddu pazzu ca fuìu scantatu, acqua ‘i surgiva spersa ntra li manu”; un uomo “ittatu e quattru venti”, senza “rimèggiu e mancu paci”, a cui “li làscrimi (…) scìnninu nzuppilu”, che invoca “la morti” e “idda rrispunni: nun ti dugnu asilu”.
    “Dinanzi a mia si grapi nu sbalancusu’ rrussi l’occhi mei, rrussi di chiantu, ma si chiancennu n terra m’allavancu, na carità: scurdàtivi stu cantu”, riferisce e chiede il Poeta.
  Chi adesso scrive è certa, però, che per il Poeta - al di là dello sconforto che pure si manifesta nel quotidiano essere e oltre l’afflizione legittima che parimenti prende nell’umanissimo andare - non è ancora tempo né di sbalancu, né di allavancu, neppure di scurdari un cantu.
  E’ tempo, piuttosto, di celebrare quella poesia contraventu, invocata da un anima insolita che intravede nell’atto dello scrivere e nel valore fondante della parola, la possibile salvezza, l’epifania dell’essenza, la parusia dell’essere. Nonostante.