Riproduco lo stemma conferitomi dalla Commissione Studi Araldici e Genealogici dell'ASCU - Accademia Siciliana di Cultura Umanistica, lo scorso 2014. Lo scudo araldico è simbolicamente molto efficace e ben mi rappresenta. Un mio ringraziamento per lo studio sui simboli e i colori all'amico Antonino Sala. il mio stemma figura fra gli altri fino ad ora concessi nel nuovo blog www.tradizionedifamiglie.blogspot.it , che vi invito a seguire.
venerdì 10 luglio 2015
giovedì 9 luglio 2015
Nel buio aspettando l’alba, speranza che non muore schegge dal mosaicosmo di Tommaso Romano
di Gianfranco Romagnoli
Questo agile volumetto, che esce per le edizioni Limina Mentis nella collana Fede e Ragione in concomitanza con il sessantesimo compleanno di Tommaso Romano, si propone di illustrare la figura e il pensiero di questo importante Autore, ben noto non soltanto nei circoli intellettuali di Palermo, ma altresì a livello nazionale ed internazionale.
Nel suo Proemio la curatrice, sua collega ed amica, non si nasconde la difficoltà di fornire un compiuto ritratto di una personalità tanto complessa ed in continua evoluzione: tuttavia, attraverso una “carrellata” sulla sua vita, le sue tantissime opere ed i suoi vasti e molteplici interessi, riesce a dare un’idea abbastanza precisa di uno studioso che è, al tempo stesso, filosofo, poeta, narratore, editore, ricco di incontri e relazioni di amicizia con i più importanti personaggi della cultura mondiale contemporanea e che presenta tanti altri aspetti, che sarebbe arduo e riduttivo tentare di definire.
Ne emerge il ritratto di un intellettuale a tutto tondo, una figura che definirei “uomo del Rinascimento” per la molteplicità degli interessi e dei suoi campi d’azione; ma soprattutto, come pure la stessa Allotta sottolinea, la figura di un Maestro, non soltanto per avere svolto, con continuità a tutt’oggi ininterrotta, un’alta opera educativa e formativa della gioventù, ma anche (e specialmente, a mio avviso) per avere raccolto intorno a sé e alle sue iniziative, come in una scuola filosofica, tanti ingegni che si riconoscono nelle linee portanti del suo pensiero, volto a coltivare con assoluta coerenza, mantenuta anche negli incarichi politici ricoperti in passato, la ricerca del Vero, del Bello e del Bene quali frutti dello Spirito e personale contributo a quel “mosaicosmo” da lui teorizzato, al cui disegno complessivo concorrono con uguale necessità, ciascuno mediante la propria “tessera” , tutti gli esseri umani.
A questo punto, la parola passa direttamente a Tommaso Romano attraverso gli scritti, racchiusi nel simbolico numero di sette capitoli, che dalla sua vastissima opera la curatrice ha enucleato come rappresentativi del suo pensiero: “schegge” che trattano, rispettivamente, l’essenzialità della parola viva; la teoretica come altezza cosmica; la gnoseologia come integrità dell’esserci; l’etica in tempo di crisi; la pedagogia come formazione dell’uomo integrale; l’estetica come etica; per culminare nel finale capitolo “dalla morte di Dio al Dio vivo”.
Un adeguato commento a ciascuno di queste “schegge” richiederebbe molto tempo e spazio: mi limiterò pertanto, pur avvertendo in pieno la riduttività della mia scelta, a richiamare alcuni punti, “schegge di schegge”, che mi hanno particolarmente colpito.
In una prima parte (capitoli da 1 a 3), svolta su un piano squisitamente teoretico, la Parola è definita epifania del Sacro, mezzo di redenzione, speranza, profezia: in particolare, la parola poetica è versus, ritorno al Divino, sortilegio e mito, base di tutte le arti e, attraverso esse, veicolo di accesso alla verità. Poi, la frase «L’Origine crea l’Inizio, successivamente, l’Inizio crea gli enti, gli enti divengono. Dal caos al Kosmos», riecheggiante temi neoplatonici pur nella originalità della successiva elaborazione, attenta al rapporto con l’Altrove e l’Attimo e sfociante nella costruzione del concetto diMosaicosmo, formato da tante tessere e sintesi simbolica delle vite degli uomini, che «si perpetuerà come rinnovamento dell’umano e come perennità dell’anima».
La gnoseologia, infine, intesa come costruzione filosofica chimerica sì, ma necessaria, anzi indispensabile, legata alla percezione e che disquisisce sull’Eterno, ma da non assolutizzare in sistemi che esaltino il passato o lo condannino decontestualizzandolo.
In una seconda parte (capitoli 4 e 5) il filosofo scende sul piano dell’agire umano, denunciando la crisi di valori dei nostri tempi che ha generato il corrente pensiero unico, mascherato di falso buonismo, di «umanitarismo senza humanitas» e di ipocrita egualitarismo, sottolineando, contro il pericolo di omologazione e marginalizzazione, la necessità di assumere un atteggiamento attivo verso se stessi quale «condizione di dignitosa sopravvivenza, uno spazio di ammutinamento dove far convergere le poche individualità disponibili per non lasciarsi stritolare da un dominante pensiero planetario dell’indistinto, del conformismo, del banale misto a volgarità»: ciò si realizza nutrendosi di «conoscenza fisica e oltrefisica», aiutandosi con letteratura, filosofia, fede, logica, recuperando l’autentica Tradizione e riscoprendo il senso del Sacro. Una tale impostazione trova il suo naturale sviluppo nelle considerazioni che il nostro Autore svolge sulla pedagogia, tutte puntate sulla missione del Maestro di formare nel giovane l’uomo integrale, educandolo alla libertà, alla scoperta dello “stile” e del “gusto”; riflessioni che si confrontano, in senso fortemente critico, con l’attuale stato di totale crisi della scuola, indotta, dal cedimento al progressismo degli slogan, a scelte spesso orientate a un «discutibilissimo “specialismo” che elimina l’orizzonte della totalità»,.facendone non più un luogo di cultura, ma «una burocrazia di funzioni affidate senza selezione, a singoli organismi pletorici e inconsistenti, dagli effetti spesso perniciosi, che producono intralcio e perdita di tempo, sottratto allo studio e all’apprendimento».
Con il sesto capitolo, dedicato all’estetica come etica, il Nostro torna alla riflessione teoretica e nel richiamare l’endiadi platonica Bellazza-Virtù, pur affermando l’impossibilità di enunciare un sistema estetico e, quindi etico, asserisce che «al di là di ogni declino epocale si può, solo se si vuole, accarezzare il Bene e la Bellezza anche aspirando alla Grazia, all’intervento della Provvidenza e alla Redenzione». Il bene è la partecipazione al Sacro e il suo rifiuto ne è l’antitesi. Va respinto il delirio di onnipotenza: l’uomo non è Dio, ma pellegrino errante; va valorizzata l’amicizia come affinità, che è Armonia. Occorre tenere conto del pluralismo dei valori nel mondo, ma mai rinnegare la propria coerente visione.
La riflessione teoretica di Tommaso Romano culmina ad altezza divina nell’ultimo capitolo in cui egli, premesso che «Dio c’è senza bisogno delle nostre credenze», individua nell’uomo la scintilla dell’Eterno e vi rintraccia il Ritorno al punto di Partenza. Il Figlio di Dio fatto uomo e da noi crocifisso, è il portatore della vera Pace, che non è «il risultato di iniziative o trattative umane, ma piuttosto … fiducia e fede nella Tradizione … messaggio non da proclamare come ideale ma … realtà giù donata da Lui e in Lui». Contro le distorsioni nel proporre la figura di Cristo come pacifista e il Suo insegnamento secondo una «ciarliera, incoerente e sincretistica nuova teologia», è «la nostra quotidianità che deve riscattare la morte di Dio, ovvero riscattare dal pensiero negativo, dal nichilismo, quella Luce che sola può illuminare l’umano transito verso la Patria Celeste».Vivere Cristo impegna totalmente l’uomo, liberandolo: il Regno è la salvezza dell’uomo
lunedì 6 luglio 2015
La seduzione della trascendenza nella poesia di Maria Patrizia Allotta
di Antonio Martorana
Nella
sua formulazione binomia (anima-alba), dalla forte pregnanza allusiva, il
titolo della bella silloge Anima all’alba
di Maria Patrizia Allotta (Palermo, Thule, 2012) ci predispone ad una “poetica
trascendentale”, vista la centralità del rapporto tra un “io” sollecitato dalla
pressante aspirazione all’Assoluto ed il senso metafisico del mondo.
Toccare il tasto del ruolo tematizzante del
titolo, e quindi immergersi nel magico cromatismo del risveglio aurorale della
foto di copertina, significa trovarsi già sulla soglia di un microcosmo da
esplorare.
Vogliamo precisare che usiamo il termine soglia nell’accezione proposta da Gérard
Genette, per indicare l’ “insieme eteroclito”di produzioni, verbali e non
verbali (titolo, copertina, dedica, epigrafe, prefazione, postfazione,
fotografie, illustrazioni varie, scelte tipografiche e lo stesso nome della
casa editrice) che danno al libro consistenza materica come presenza nel mondo
e come prodotto di consumo.
L’elenco di cui sopra, circoscrive così
l’area della paratestualità, inerente la relazione tra il testo e i “segnali
accessori, autografi o allografi, che producono al testo un contorno
(variabile) e a volte un commento ufficiale o ufficioso (…) e che è
indubbiamente uno dei luoghi privilegiati della dimensione pragmatica
dell’opera, vale a dire della sua azione sul lettore” (G. Genette, Palimpsestes,Senil, Paris, 1982, p. 9).
Nella postfazione al libro di Genette Soglie. I dintorni del testo (Einaudi,
Torino 1987), da lei tradotto in italiano, Camilla Maria Cederna definisce la
paratestualità come “frangia del testo che esiste solo in virtù di una
decisione metodologica; area di transizione o meglio di transazione tra il
dentro e il fuori, soglia o, per citare ancora un’altra metafora, chiusa tra la realtà socio-storica del
lettore e quella relativamente immutabile e ideale del testo” (Soglie, cit. p. 407).
Il paratesto è, per la Cederna, “il luogo
privilegiato dell’istanza autoriale”, poiché è proprio in esso che l’autore, a
livello diretto o indiretto, “manifesta la propria autorità nei confronti del testo e della sua interpretazione”.
Ciò premesso, non abbiamo esitazione
nell’affermare che esperire un approccio metodologico di tipo genettiano al
libro di Maria Patrizia Allotta vuol dire focalizzare tutto lo spettro della
significatività dei vari elementi paratestuali a disposizione, a cominciare
dalla stessa veste tipografica, che chiama in causa le responsabilità ideative
e realizzative della casa editoriale.
Nel caso specifico, l’eleganza dell’ “abito”
indossato dal testo e confezionato da Thule per la collana “Il quaderno di
Munari”, inaugurata dalla silloge Dittici
e altro di Nino Aquila, è pur esso espressione di un “commento autoriale”,
facendo presupporre una legittimazione dell’Autrice nell’intento pragmatico e
strategico “di far meglio accogliere il testo e di sviluppare una lettura più
pertinente” (Soglia, cit. p. 4).
Ritornando adesso alla foto di copertina,
appalesante una innegabile correlazione tra il suo linguaggio iconico e gli
enunciati verbali del testo, riconosciamo che la sua “quiddità” ha valenza di
commento e implica la “responsabilità dell’autore” (Soglie, cit. p. 4009).
Ancor più tale responsabilità aumenta se si
tiene conto, nel caso specifico, che tutte le foto del testo, compresa la
copertina, sono state scattate dalla stessa Allotta, come omaggio al padre,
apprezzato maestro-fotografo.
Sono scorci paesaggistici di rara
suggestione. Qui è come se la parola, nella sua possibilità di dissolvimento,
spegnesse il proprio suono, per palpitare attonita nell’incantato silenzio del
creato, teatro di un ritrovato equilibrio nel rapporto uomo-natura.
Passando alla Prefazione, altro elemento paratestuale che Borges considera il
“vestibolo” dell’opera, vediamo come Nino Aquila colga una nota fondamentale del
testo: la sua “spiritualità intensa”.
Ma è grazie al denso intervento postfativo
di Tommaso Romano che il lettore può penetrare nel “sentire profondo” della
silloge. Egli ravvisa nell’orfismo di Maria Patrizia Allotta una weltanschauung,
ma tale motivo meriterebbe un approfondimento in altra sede, poiché si entra
nel terreno di quella “trascendenza testuale”, relativa al gioco delle
relazioni di un testo con altri testi, che Genette definisce trantestualità(Soglia, cit. p. 412).
Romano sottolinea la presenza in quei versi
di una componente onirica caratterizzata da una “consustanzialità” alla vita,
definendo il sogno come “il terzo occhio del cuore che false prospettive e
illusioni allontana in nome di una inesausta ricerca di armonia e bellezza”.
Arde in quella poesia un “fuoco di sacralità
… come tributo all’Infinito”.
E è il termine “fuoco” del citato passo
romaniano a farci balenare nella mente l’espressione “cuore di fuoco, spirito
di luce”, usata da Giovanni Papini a proposito di quell’ “operoso guerriero di
Cristo” che fu Pietro Mignosi. Per questo “ingegno in moto perpetuo, il
cervello più vivo che fosse in Sicilia fra il ‘15 e ‘37”, come a sua volta lo
definisce Guglielmo lo Curzio (Scrittori siciliani, Novecento, Palermo, 1989,
p. 148), la poesia è “quella essenzialità espressiva che dice il dicibile senza
girarvi attorno e senza gonfiar la voce”.
Alla luce di una cristallina affinità
elettiva, sotto il profilo della consapevolezza della missione affidata al
poeta e della scelta di una cifra stilistica dalla spoglia essenzialità,
riteniamo che la frase papiniana “cuore di fuoco, spirito di luce” ben si
adatti anche all’ardore del temperamento creativo della poetessa palermitana.
La silloge Anima all’alba vede la luce in un momento storico segnato dalla
pervasività della comunicazione tecnologica, che minaccia di inaridire la
trasmissione della parola, sempre più incapace di creare dialogo, sempre più
affossata nelle sabbie mobili di una virtualità anonima.
Tale
deriva è il risultato di una gigantesca operazione di espropriazione
dell’autonomia, portata avanti dall’industria culturale della società
capitalistica, rea, per Adorno e Horkheimer, di avere “perfidamente realizzato
l’uomo come essere generico”, a tal punto che l’individuo “è assolutamente
sostituibile, il puro nulla” (T. W. Adorno – M. Horkheimer, Dialettica
dell'illuminismo, Torino, Einaudi, 1976, p. 161).
A
fronte di tale scenario desolante si comprende il senso della sfida lanciata da
una poesia rivelatrice di una trascendenza tenuta occultata dalla realtà
fenomenica, e testimonianza di quelle “indelebili verità” che “sulla terra
accadono senza luogo / senza perché”, di cui parla Mario Luzi in L’immensità dell’attimo (vv.
10-11).
Ponendosi in questa linea di tendenza, Maria
Patrizia Allotta continua la tradizione orfica della nostra lirica,
orientandola verso una prospettiva teologica di essenzialità dalla
contingenza all’ “essere”.
La sua
silloge è un racconto autobiografico di un’anima che, ribaltando una gnome
esistenzialistica sull’essenza spirituale dell’Universo, si attesta su
posizioni di difesa del patrimonio valoriale attinto alla tradizione.
La nota commotiva del risalire a questa come
viatico del nostro cammino può cogliersi ne L’immensità
di esistere:
Ai
confini tra cielo e terra
scorge
luminoso sole,
bagliore
azzurrato marino,
in
alto nuvole profughe.
Adesso
vento stillato
non
elimina e porta via
meglio,
inspiegabilmente
conduce
elementi
essenziali del vivere.
Aria
profumata ora
etere
spazio
illimitato.
Respiro
profondissimo
ricolma
il reale del tempo andato
ma
nella Tradizione si intravede il futuro
alito
sconfinato
riporta
destino dettato dal Cosmo
in
esclusiva bellezza del vero
sospiro
intimo
riconduce
all’unicità
non
del nascere
ma
dell’essere.
Immensità
d’esistere.
Il bisogno dello spirito di trovare un
definitivo approdo salvifico nello “splendore/del Verbo del Signore” permea la
poesia Salmo 130:
Come in
antico salmo
di pellegrino errante
anche il nostro odierno canto
supplica l’Eterno
s’innalza dai luoghi più profondi
la voce disperata
che prega ascolto
per esser consolata
si sente nel buio un grido di dolore
che implora
al gran Mistero soltanto Amore
s’invoca, con mestizia,
l’atteso perdono
per far dell’unica esistenza
un grande dono
e si chiede con ardore
giustizia, benevolenza,onore
poi, lentamente
sopita ogni rabbia e
accettato ogni destino
lo spirito si placa
certo dell’aiuto del Divino
e come guardia d’Israele aspetta
il chiarore mattutino
così ciascun anima vagante
attende lo splendore
del Verbo del Signore.
La pregnanza
simbolica del materiale lessicale utilizzato tesa a recuperare una parola
assoluta e originaria, scaturisce da un’esistenza profonda di rifondazione
verbale del mondo su base platonico-cristiana.
La “ricerca veritativa” della poetessa
palermitana, come la definisce Tommaso Romano, culmina alla fine nel momento
epifanico dell’incontro con il Maestro:
Prima
nel tempo mattutino
il reale unito al contingente
dona quell’incessante sbandamento
che sradica e logora
mortifica
e a volte svilisce
poi
in abbandono
nel buio dell’universo notturno
rivive la magia dell’Oltre
scende l’impalpabile serenità
dell’Infinito
si coglie la Bellezza cosmica
la santità del Sacro,
l’irraggiungibile Verità
nella ricerca incessante di quel
“senso del senso che è già Senso”.
E nelle
preghiere confidenze
poi per
esserci si ringrazia sempre.
Suggerisce così il Maestro e
l’nima all’alba
rinasce.
I lessemi ricorrenti (Infinito, Bellezza,
Sacro, Oltre, Verità, Amore, Divino) sono lame di luce che fendono l’opacità di
questo nostro mondo, dove l’uomo, per usare le parole di Georg Simmel, viene
“ridotto a una quantità negligeable, ad un
granellodisabbia di fronte ad un’organizzazione immensa di cose e di forze che
gli sottraggono tutti i progressi, le spiritualità e i valori, traferiti via
via dalla loro forma soggettiva a quella di una vita puramente oggettiva” (G.
Simmel, La metropoli e la vita dello
spirito, Roma, Armando, 1987, pp. 43-44).
Il messaggio di riscatto lanciato da Maria
Patrizia Allotta intende offrire risposte definitive a una conduzione
esistenziale affacciata sull’inquietante mistero della propria destinazione.
“Tu non tocchi un libro, tocchi un uomo”:
con tale precetto il critico statunitense Francis Otto Matthiessen,
la cui fama resta legata all’opera American
Renaissance(1941), intendeva
responsabilizzare il lettore.
Quel precetto vale anche nel nostro caso.
“Toccare”
il libro Anima all’alba significa
cogliere la sintesi dell’individualità dell’Autrice e della complessa cultura
millenaria che ha dato forma ai suoi pensieri ed alla sua lingua, e le cui
invisibili mani hanno concorso alla stesura del testo.
Mi
piace adesso esplicitare la ragione per la quale parlo di “seduzione della
trascendenza” nel titolo della presente nota.
Affiora dai versi della silloge la
deducibilità di un’idea di trascendenza come suprema espressione di una
bellezza che rapisce, e quindi seduce, nell’estasi contemplativa.
Coniugando “Estasi con bellezza”, come suona
il primo verso di Estasi, l’Autrice
proietta tale vertiginosa intenzione nella prospettiva di “quel mistero /
voluto forse / da celeste Destino”.
Ravviso
in tale enunciato, che sottende un concetto trascendentale di Bellezza,
l’inveramento, sul piano della creazione poetica, di un tema-cardine dell’estetica
teologica di Hans Urs von Balthasar.
Nella visione di questo grande pensatore
svizzero, definito da Pare de Lubac “l’uomo più colto del nostro tempo”, solo
l’espressione estetica può rendere accessibile la rivelazione, mentre destinato
a fallire sarebbe qualsiasi tentativo di approccio, basato sulle solite
categorie conoscitive.
A
pretesa di spiegare quell’evento attraverso una qualche elaborazione
speculativa “significherebbe riportare la sfera dell’infondatezza translogica
del dono personale d’amore (quindi la sfera dello Spirito Santo) alla sfera del
logos, inteso come esclusivo intelletto cosmologico-antropologico”.
E’ “nella figura luminosa del bello” che
“l’essere dell’ente diviene visibile come in nessun’altra parte; e per questo
un elemento estetico deve essere presente in ogni conoscenza e tendenza
spirituale”. E’ quanto può essere verificato nello splendorche, anche per San Tommaso, accompagna il verum.
La bellezza intesa come manifestazione della
verità che Dio partecipa agli uomini “è l’ultima avventura in cui la ragione
ragionante può arrischiarsi, ché la bellezza non
fa che circondare con un impalpabile splendore il duplice volto della verità e
della bontà e la loro indissolubile reciprocità”.
Queste cose ci dice Hans Urs von Balthasar
nella sua poderosa opera Herrlichket.
EinetheologischeAesthetik (Gloria.
Una estetica teologica, 7 voll., Milano, 1971 e segg.), che, mirando alla
fondazione metafisica del discorso teologico, si pone nella prospettiva delle
estetiche teologiche elaborate da Ireneo,
Agostino, Dionigi, Anselmo, Bonaventura, Dante, Pascal, Giovanni della Croce, Hamann, Soloviev, Hopkins,Péguy.
Trovo
davvero sorprendente la consonanza con i temi portanti della riflessione
balthasariana delle intuizioni metafisiche connotanti una poetica che, per
Carmelo Fucarino, ruota attorno a una “antitesi esistenziale, in biancore
dell’alba, raramente aurora, e l’incombente tenebra notturna che pure si
attende con ansia come porto di riposo e di pace”. (Per la poesia di Maria Patrizia Allotta. L’anima di inesauribile,
in “Sicilia Umanistica”, anno XXXIII, 2013, p. 6).
Anche Maria Patrizia Allotta ha voluto,
dunque, raccontarsi, come tutte le donne che, raccontandosi, sembrano
confermare la “profezia” di Geltrude
Stein: “ci sarà un giorno in cui verrà raccontata la storia di milioni e
milioni di donne …. di come sono in sé,
nella loro vita” (C’era una volta gli
Americani, Torino, Einaudi, 1979, p. 195).
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