giovedì 26 gennaio 2017

Sandra Guddo, "Le Geôlier" (Ed. Vertigo)

di Maria Patrizia Allotta

 Così scrive Fëdor Michajlovič Dostoevskij: “L’amore è un tesoro così inestimabile che con esso puoi redimere tutto il mondo e riscattare non solo i tuoi peccati ma anche i peccati degli altri.” 
   Non sappiamo il parere di Sandra Guddo sul grande Autore russo, di certo possiamo affermare che circa l’amore e la redenzione la pensi esattamente come Lui.
     E lo dimostra con estrema semplicità nel testo dal titolo Le geôlier dove l’amore   - quello vero - oltre a redimere i peccati del protagonista riesce a generare una folata di speranza che, sfiorando i cuori di ogni singolo lettore, ben fa auspicare. 
   Non si tratta di ottimismo a buon mercato, né di vana illusione, o possibile  miraggio euforico. Nemmeno di abbaglio letterario o fallo romanzesco, oppure infingimento prosastico.
   Sembrerebbe piuttosto che la Scrittrice palermitana - già autrice, nel 2014, del suo primo libro dal titolo Tacco 12. Storie di ragazze di periferia (Hombre Edizioni) intraveda sinceramente - oltre la fragilità, la sofferenza, l’angoscia che pure offendono il genere umano al di là di ogni coordinata spazio-temporale - la possibile liberazione dal dolore, il pensabile riscatto esistenziale, la probabile salvezza dello spirito.   
    Infatti, nelle 168 pagine edite da Vertigo, il male - che pure è insistentemente presente nel testo e che certamente appartiene a molti personaggi i quali mostrando un vissuto psicologico particolarmente tormentato si muovono ora tra grettezze e volgarità, ora tra bassezze e trivialità, ora tra perfidia e crudeltà, raggiungendo lo svilimento della loro stessa entità e l’annullamento della propria essenza - sembra essere, paradossalmente, ontologicamente inesistente, ovvero, concepito da Sandra Guddo come nefasta assenza o privazione del bene, seguendo, forse, il grande insegnamento filosofico del doctor gratiae, Agostino D’Ippona, secondo il quale il “male di per sé non esiste. Altro non è se non la mancanza del bene”.  
   In effetti, mentre taluni personaggi del sopracitato testo, non avendo sperimentato i più alti valori esistenziali, rimangono a brancolare nel buio del peccato - “tra donne, fumo, alcol, droghe, gioco d’azzardo (…), mai stanchi dell’ebbrezza e dell’adrenalina che dà il rischio” - condividendo così l’assoluto male, altri invece, baciati dalla provvidenza divina, una volta identificato il vero bene si perdono in quella dimensione vitale luminosissima che solo l’autentico amore può donare.
   E’ ciò che capita, soprattutto, al protagonista, Cesare, “carceriere di se stesso”,  uomo ricco, colto, determinato e ambizioso, eppure “violento e deviato” capace di condotte bestiali per puro piacere il quale, tuttavia, nell’arco del tempo, si redime diventando “un uomo nuovo che è riuscito a perdonarsi attraverso la dolorosa via del pentimento che scaturisce soltanto quando si prende completa consapevolezza dei propri errori” e quando si trova “quella rete di salvataggio” data esclusivamente dall’autentico amore che la Nostra dipinge come una “ventata di area fresca per fugare i miasmi delle ferite infette e purulente; un gessetto colorato che traccia incantevoli arabeschi sul nero della lavagna”.   
    Ma non è tutto. La ricchezza del libro consiste nel fatto che l’Autrice di Le geôlier all’interno del significativo chiaroscuro dettato dal peccato e dalla redenzione, dall’odio e dall’amore, dal male e dal bene, dalla vita e dalla morte, con estrema disinvoltura inserisce - attraverso un linguaggio moderno e dinamico, immediato e semplice, sostanzialmente chiaro ma mai banale, lontano da costrutti baroccheggianti o effimere ridondanze - non soltanto un puntuale esame psicologico dei personaggi emblematicamente e simbolicamente indicativi del romanzo - dimostrando così ampie conoscenze in campo psichico e mentale - ma anche la trattazione di tematiche e problematiche relative a questioni sociologiche fortemente attuali e di grande interesse.  
   La crisi economica che attanaglia le industrie, il commercio clandestino delle armi, le diatribe interregionali, l’emigrazione e l’emarginazione, la vecchiaia e l’abbandono, la droga e l’alcolismo, la povertà, la separazione, l’adozione, la prostituzione, la violenza fine a se stessa, sono tutte questioni presenti e affrontate però con mano delicata eppure efficace.
   Infatti, all’interno del testo, non assistiamo a nessuna trattazione sistematica e ad alcun sviluppo organico circa le questioni psico-sociali, meglio, senza mai scivolare nelle forzature letterarie inconcludenti o nelle furbizia degli infingimenti, l’Autrice con penna lieve - quasi sommessamente e in perfetto equilibrio sintattico-stilistico - dona ai suoi lettori spunti di riflessioni etico-morali secondo l’insegnamento socratico del ti estì che, appunto, insemina il dubbio per intraprendere il cammino della possibile verità, e del dialogo, unico mezzo inevitabile per combattere sia la pirandelliana “incomunicabilità” che il montaliano “mal di vivere” e per promuovere, alla maniera di Haidegger, “l’idea della progettualità e della speranza”.
   E all’interno del testo - sembrerebbe a chi adesso scrive - in effetti il miracolo del dialogo costruttivo che riconduce alla progettualità e, quindi, alla speranza, avviene appunto attraverso il trionfo dell’amore che inevitabilmente si rapporta con il celeste, con il sacro, con il divino.  Con il vero e con il bello.     
   All’interno del testo, infatti, l’amore e la fede danno vita, “all’infinita misericordia di Dio” che non soltanto “cancella le colpe, ma libera dalla disperazione e permette di uscire dall’angolo, facendo ritrovare il coraggio e la volontà di andare avanti”.
    Un libro straordinariamente ricco, dunque, dove spunti psicologici e sociologici s’intrecciano con riflessioni etiche ed estetiche, dando vita ad un unico tappeto musivo il cui messaggio conclusivo, alla maniera di Jacques Prévert sembrerebbe il seguente: “La nostra vita non è dietro a noi, né avanti, né adesso, è dentro”, pertanto “bisognerebbe tentare di essere felici, non fosse altro per dare il buon esempio”.
   E certamente Sandra Guddo con Le geôlier il buon esempio l’ha dato intonando, felicemente, un inno al bene e all’amore e un canto alla salvezza e alla redenzione.      


                                                                                                  Maria Patrizia Allotta      

La poesia filosofeggiante di Giacomo Leopardi

di Maria Patrizia Allotta

Che Leopardi sia uno dei massimi esponenti della letteratura internazionale nessuno potrebbe metterlo in discussione, che sia anche filosofo, invece, è stato ed è a tuttora motivo di accesi dibattiti.
   Infatti, relativamente alla dimensione filosofica rintracciabile nell’opera leopardiana non tutti i critici sono d’accordo, tanto che si potrebbe parlare di due tendenze sostanzialmente opposte: da un lato ritroviamo il vecchio filone della cultura laicista italiana che intravede un senso filosofico scarsamente significativo e, comunque, poco profondo, originale, costruttivo; dall’altro, invece, rintracciamo valutazioni estremamente positive circa il filosofare leopardiano.    
   Infatti - sebbene la qualifica di ‘filosofo’ gli sia stata attribuita già in vita dalla cerchia degli amici che conoscevano bene alcune sue opere e sia stata variamente espressa in alcune pagine dello stesso Leopardi dove ricorre l’espressione «il mio sistema filosofico» e nonostante lo stesso Giordani nel Proemio al terzo volume dell’edizione postuma delle sue Opere lo ricordi come «sommo filosofo» - per Francesco De Sanctis, solo per fare qualche esempio, la creazione lirica, è l’unica produzione genuina e sinceramente autentica del Leopardi, modesta e artefatta appare, invece, quella filosofica; così pure per Benedetto Croce il quale aggiunge, tra l’altro, che la poesia del recanatese pur oscillando tra filosofia e letteratura, non riuscì mai, a tenere la rotta dell’autentico logos.
  Per Giovanni Gentile, all’opposto, soprattutto nelle Operette morali, Leopardi appare come valido e interessante filosofo, così come per Adriano Tilgher il quale sostiene che proprio nello Zibaldone esiste una filosofia che certamente non è né sistematica, né elaborata, né procede per astrazioni, ma fortemente immediata,  comunicativa, costruttiva.
   Nel dopoguerra si assiste ad una sostanziale rivalutazione della filosofia leopardiana, grazie prevalentemente agli apporti della critica storicistico-marxiana, la quale mette in risalto la produzione posteriore al ’30, rinforzando la pregevolezza del poeta impegnato e progressivo contro quello isolato e solitario dell’idillio.
   In tal senso  saggi interessantissimi sono quelli scritti da Cesare Luperini  Leopardi progressivo; da Walter Binni  La nuova poetica leopardiana;  da Sebastiano Timpanaro  Alcune osservazioni sul pensiero di Leopardi e da Carlo Muscetta  Schizzi, studi e letture,  contributi questi ora menzionati, contrassegnati da una decisa matrice ideologica, che individua nel Leopardi un pensiero fortemente concettuale, che non solo non è da ostacolo alla sua poesia, ma piuttosto è il suo vitale nutrimento, pensiero concettuale, tanto profondo, che può essere elevato al rango di filosofia.
  Interessanti anche gli studi condotti da Emanuele Severino - non storicista né marxista - il quale magistralmente ha saputo mettere in luce notevoli elementi comuni tra il pensiero del nostro poeta a quello di altri indiscussi grandi filosofi europei, evidenziando che se è vero che la riflessione filosofica non prevede scomparti predeterminati ma piuttosto una straordinaria espressione dello spirito umano dai confini mai fissi, allora possiamo sostenere con estrema serenità che Leopardi è un grande filosofo perché ha fatto della semplice parola verbo di speculazione.    
    Quindi, mentre per alcuni studiosi Leopardi - pur possedendo le attitudini e gli strumenti culturali, le competenze e le abilità - non può essere considerato filosofo per il fatto che la sua volontà di speculazione è alterata già in potenza - sollecitato da motivi biografici e storico-culturali - avendo assunto sin dall’inizio un atteggiamento valutativo ostile nei confronti dell’esistenza e dei valori più alti e nobili che questa manifesta, valori molto spesso considerati alla stregua di miti o peggio inutili illusioni, per altri, Leopardi è un autentico esistenzialista capace di affrontare soprattutto questioni legate alle tematiche di ordine pratico-morale, quali per esempio, l’indagine sulle ragioni prime e la cause ultime della vita, il senso dell’esistenza, se è possibile raggiungere la felicità, quali sono i veri valori esistenziali, se dopo la morte ci attende qualcosa o ci aspetterà il nulla eterno. 
   E soprattutto lo Zidaldone - che riconduce direttamente a pensieri sull’anima, sulla metafisica, sulla religione, sulla natura, sulla morale, sulla scienza, la conoscenza, il linguaggio, sui problemi antropologici, sociali e politici, sull’universo definito da Lui stesso “un bruscolo in metafisica” - ben potrebbe configurarsi come vero trattato filosofico, pur non essendoci una struttura portante sistematica e organica, come d’altronde in molti altri intellettuali più comunemente definiti filosofi.
  Né si può negare che manchi a Leopardi lo stile filosofico e la forma e la sostanza del filosofare, tanto che alcune sue pagine, specie quelle relative alla Teoria del piacere, sono di tale inclemenza e concretezza che sembrano stilate dalla penna di Hume, Leibiniz, Locke.
   E in effetti, molte pagine scritte dal Leopardi, potrebbero sembrare poco inerenti agli sviluppi della filosofia del XIX secolo, solo ad una lettura fugace e poco attenta, o a chi non ha avuto la fortuna di studiare la storia del pensiero dalle origini ad oggi, perché, in realtà, la sua speculazione non solo riprende tematiche e problematiche tipicamente tradizionali, ma si apre verso nuovi orizzonti meditativi che saranno motivo di dissertazione dei filosofi a lui contemporanei o successivi quali, per esempio, Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger. 
    Per esempio, disseminati nei vari scritti, si celano magistralmente nozioni basilari appartenenti alla storia della filosofia greca, tra cui anche i concetti di “materia” e di “natura” che inevitabilmente riconduce al termine ellenico “physis” e al suo “divenire”, concetto quest’ultimo molto radicato nel nostro poeta il quale molto prima di Nietzsche, quasi sottovoce, sommessamente, cautamente, ritorna ai greci e rientra appieno nella trattazione del pensiero Occidentale.
   Infatti, nel nostro Giacomo è da notare il nucleo concettuale legato al “divenire” e al “nulla”, nucleo sviluppato poi, in modo pregevole, dal soprannominato pensatore tedesco, secondo il quale il “suddetto carattere transeunte degli enti ne presuppone uno di incondizionata innocenza: il realizzarsi delle cose e la loro distruzione è puro fatto, puro accanimento senza perché, il gioco della natura che non può essere vinto da alcuna arte dei (…) mortali. E accanto a questa evidenza inoppugnabile, ossia all’argomento del “divenire”, e come conseguenza di essa, sta quella per cui tutto è nulla: tutte le cose dell’esistenza provengono dal nulla e ad esse fanno ritorno e quindi, per via del loro essere nulla, passato e futuro sono nulla, un solido nulla.
   Esso stesso è principio di ogni essere, dunque, e perciò - esattamente come nel Leopardi il quale nelle Operette morali scrive testualmente: Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obiettivo il morire. Non potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturiscono le cose che sono. (…) tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta, e un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso - non si può porre alcuna verità incontrovertibile e assoluta, nessun principio di conoscenza, nessuna verità”. (E. Severino). 
    E sempre sulla scia dei probabili insegnamenti del Leopardi, Nietzsche dirà che le illusioni dell’arte sono la condizione unica ed essenziale della sopravvivenza: “il vero mondo, egli scrive, è falso, crudele, contraddittorio! e noi abbiamo bisogno della menzogna per vincere questa verità, cioè per vivere. L’uomo deve essere per natura un mentitore, deve essere prima di tutto un artista”, un fingitore per dirla come Pessoa.   
   Però, mentre Nietzsche aggiungerà che al di sopra dell’uomo, che è destinato all’annichilamento, è possibile l’esistenza del “superuomo”, ossia di chi, valicando la natura di essere umano, esulta della totalità della vita, Leopardi, nel suo “pensiero eternamente in movimento”, che certamente muta a seconda dei periodi e delle vicissitudini provate, dà vita all’etica della solidarietà - che sarà il tema centrale della Ginestra - etica concepita come puro estremo messaggio filosofico da inviare a tutti gli uomini di buona volontà, messaggio che auspica l’alleanza fra gli esseri umani, come dire, una social catena capace di unire, in un unico abbraccio, i mortali affinché sia possibile fronteggiare l’empia natura, l’infelicità, il dolore e soprattutto la noia.     
    Concetti, quest’ultimi che lo avvicinano straordinariamente a un altro grande filosofo quale è Schopenhauer secondo cui se per caso cessa il dolore, non subentra affatto il piacere, ma qualcosa di peggio, ovvero la “noia”.
   Il dolore, infatti, non esclude che l’uomo cerchi e speri di affrontarlo, mentre la noia è angoscia e disperazione. E allora, per Schopenhauer così come per Leopardi, la vita oscilla inesorabilmente come un pendolo tra il dolore e la noia, in un eterno meriggio privo di tramonto ristoratore dove, comunque, non c’è spazio per la felicità che è intesa come semplice assenza momentanea dell’affanno.
    Ma, a questa visione esistenziale certamente amara si contrappone la sopracitata etica della solidarietà, ovvero la necessità di un’autentica solidarietà umana di fronte al destino, etica la cui prima espressione filosofica la rintracciamo già nel 1827,  (prima ancora che nella Ginestra) nel Dialogo di Plotino e di Porfirio, basato sulla tematica relativa al suicidio e volto a specificare le ragioni che lo disapprovano come possibile soluzione al dramma esistenziale.
  Scrive Leopardi: "Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora". 

   Citazione questa che ci aiuta, comunque, non solo a sminuire la visione nichilistica leopardiana che appare oggi, più che mai, infondato luogo comune, insicuro stereotipo e inconsistente cliché, ma a lottare contro l’accusa di misantropia rendendogli difficile il titolo di filosofo.     

   Infatti, senza bisogno di ricorrere alla critica, in una famosa pagina dello Zibaldone, lo stesso Leopardi dissipa con forza i sospetti di nichilismo e misantropia di cui era fatto oggetto il suo pensiero, così scrivendo: "La mia filosofia non solo non è conducente alla misantropia, come può parere a chi la guarda superficialmente, e come molti l’accusano; ma di sua natura esclude la misantropia, di sua natura tende a sanare, a spegnere quel mal umore, quell’odio, non sistematico, ma pur vero odio, che tanti e tanti, i quali non sono filosofi, e non vorrebbero esser chiamati né creduti misantropi, portano però cordialmente ai loro simili (…). La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all’origine vera dei mali dei viventi."

   Ma non è tutto. Nella dialettica leopardiana negare la sua religione è negare la sua stessa poesia, che è preghiera cui nessuno risponde, ricerca senza alcun risultato, accusa che precipita nel vuoto e che pure misteriosamente risorge.
   Il rifiuto del poeta di credere - per dirla alla maniera di Divo Barsotti originale esegeta nel nostro Giacomo - è provocazione a Dio perché si riveli.
    Difatti, di fronte alle illusioni di questa vita, la sua filosofia diviene sì angoscia, smarrimento e solitudine, ma anche commovente trattazione teologica, epifania, emozionante testimonianza religiosa, dove per religione non si intende un inutile complesso di credenze e di pratiche relative alle cose sacre, ma piuttosto sentimento naturale, intenso, intimo, ineluttabile, che “induce l’uomo a superare la dimensione del sensibile e del temporale e percepire l’esistenza di una realtà superiore per trovare in essa la risposta ai più radicati dilemmi dell’animo umano: senso della vita e della morte, bisogno di verità e di amore, ansia di purezza e d’infinito” (D. Barsotti). 
     E in effetti, il suo vero credo, la sua profonda testimonianza per una ricerca di perfezione, il suo senso di purezza e d’infinito è quello dell’esserci - proprio alla maniera di Heideggerlasciando un segno, un’impronta, un’orma, attraverso le scelte, le possibilità dei rapporti, la progettazione, la trascendenza, i necessari dubbi.
     Mi piace concludere citando alcuni  frasi e aforismi leopardiani che ci fanno intendere, da soli e senza bisogno di alcun commento, la grande autenticamente dimensione filosofica di Giacomo Leopardi:
  
    …calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogni inganno puerile e ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera…


***
Io non mi sottometto alla mia infelicità, né piego il capo al destino, e vengo seco a      patti, come fanno gli altri uomini […]. Né in questo desiderio la ricordanza dei sogni della prima età, e il pensiero d'esser vissuto invano, mi turbano più, come solevano.
Se ottengo la morte morrò così tranquillo e così contento, come se mai null'altro avessi sperato né desiderato al mondo.
***
   Sono convinto che anche nell'ultimo istante della nostra vita abbiamo la possibilità di cambiare il nostro destino.

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Tutto è follia fuorché il folleggiare. Tutto è degno di riso fuorché il ridersi di tutto.
-
***
Chi ha il coraggio di ridere è padrone del mondo.

***
Io non ho bisogno di stima, né di gloria, né di altre cose simili;
ma ho bisogno d'amore.

***
I momenti migliori dell’amore sono quelli di una quieta e dolce malinconia,
dove tu piangi e non sai di che…
***
Il desiderio che ha l’uomo di amare è infinito perché
l’amore, anche profondo o disperato, è sempre dolcissimo.

   Allora, alla luce dei frammenti, probabilmente la filosofia leopardiana manca di organicità e sistematicità, certamente è influenzata dal suo dolore e dalla sua sofferenza, ma sono proprio dolore e sofferenza che, anziché subordinare negativamente il suo pensiero (come vorrebbero gli idealisti e i romantici) faranno sì che egli indaghi intensamente e sentitamente sui problemi esistenziali della vita per mezzo della parola lirica, della poesia, del canto che rimangono autentico mezzo di rinascita, di resurrezione, di epifania.

  Restiamo convinti, dunque, che quello del Leopardi rimane, un “pensiero poetante”, o anche una “poesia filosofeggiante” di eccezionale valore, così come di eccezionale valore è egli stesso, “Il giovane favoloso” (così come lo definisce Mario Martone nel suo recente film) capace di entusiasmare lo spirito e accarezzare dolcemente ogni    cuore in ricerca.