mercoledì 28 settembre 2016

Pasquale Attard, "Dal Califfato al Regno" (Ed. Thule)

di Maria Patrizia Allotta

  “In un alba gelida che però spera in un rosso tramonto, sono germogliate, e non uso questo termine a caso, le composizioni che compaiono in questo volume, tutte gocce di vita, di amore, o di dolore, di sogno o di cruda realtà, ma sempre tenendo bene a mente che siamo servi inutili”.
    Nel 2014, così scriveva il poeta Pasquale Attard nella nota che introduce la sua prima silloge dal titolo Il tuo Regno viene.
    Adesso, a distanza di due anni, nel leggere le nuove liriche che compongono la seconda raccolta intitolata Dal califfato al regno - pubblicata, come la prima, dalla prestigiosa casa editrice Thule -  sembra, a chi adesso scrive, che le gelidi albe e la speranza nel rosso tramonto non abbiano ancora abbandonato il Poeta palermitano di origine maltese il quale, con lo stesso rigore spirituale, attraverso la parola fervida del rimare, continua a raccontare il suo germoglio esistenziale.
   Infatti - al di là di una significativa evoluzione stilistica che svincola i versi, appartenenti alla seconda crestomazia, dalla rigida impalcatura morfologica e sintattica di stampo classico, dando, pertanto, maggiore spazio alla libertà e all’agire creativo dell’Autore - le trattazioni vitali, in nome di una profonda coerenza, appaiono sostanzialmente le stesse.
   Ancora una volta, infatti, non c’è posto per le mode letterarie bizzarre, né per le voghe sapienti ma alterate, neppure per le forme d’intimismo esasperate e paralizzanti fini a sé stesse; non si intravedono inutili e fugaci colloqui, né spicciole conversazioni, neppure chiacchierate alla buona; non si scorge l’interesse per il parziale o per il particulare, né per il soggettivo, oppure per l’individuale.
  L’interesse di Attard va oltre. Il suo sguardo è proteso verso l’oggettivo, l’universale, l’Assoluto, il Vero.
  Non c’è spazio, dunque, per il relativismo, ancor meno per il sensismo e il materialismo, né per l’ottuso criticismo illuministico negatore di ogni istanza metafisica, o per i facili entusiasmi settecenteschi falsamente egalitari, democratici e libertari.    
   Piuttosto, l’indagine portata avanti dal Nostro si basa sull’Idealismo tradizionale di stampo trascendentale che vede nell’io un’entità creatrice unica e infinita capace, se vuole, di conoscere e praticare, e nella natura la massima incarnazione di quell’arché incondizionato e assoluto che prende forma e consapevolezza anche attraverso l’arte.
  Pertanto la ragione dei philosophes, oggi tanto celebrata acriticamente dai più, sembra sia lontana dal sopracitato Autore, perché ritenuta incapace di comprendere la realtà profonda e ultima dell’uomo e del Cosmo tutto, mentre, pare, prevalere la volontà di dare spazio a quel Logos, a quell’ethos e a quel pathos che si muovono, con estrema sofferenza, tra una sorta di ilozoismo e un certo panteismo che mai viene a mancare all’interno delle due raccolte.  
   Una forza intrinseca, un respiro profondo, una divinità eterna si sente fra le strofe.  
   E in effetti, il Poeta - riluttante e impensierito, coerente e coraggioso, serio nella sua atipicità che lo pone lontano dal coro dei dormienti, distante dai facili entusiasmi, dal delirio di onnipotenza dettato dalla moderna tecnologia, dai miscredenti e da ogni forma irrazionale di arroganza e presunzione - con mano ferma e a voce alta, oltre a sottolineare la fragilità dell’uomo, i limiti dell’antropico agire, le colpe e i peccati, le mancanze e le debolezze, la solitudine e la nostalgia, il dolore e la morte, evidenzia contestualmente la gioia e l’allegria, l’amicizia e l’amore, gli incontri e le lusinghe, la vita e la redenzione, il riscatto, la liberazione, la possibile salvezza.   
   Ecco il pneuma vitale attardiano che va oltre ogni nichilismo bigotto per esplodere in quella  Parusia che accarezza i cuori e rinvigorisce gli spiriti.     
  Dopo il peccato la salvezza; oltre il dolore e la morte, la speranza e la vita; al di là del male il bene, il tutto espresso in una visione autenticamente cristiana che dà vita a un tappeto musivo dove ogni lettore si orienta, sosta, si consola. Anche, forse, se non credente.
   “E’ il Pantocratore, che torna a prendere possesso del suo mondo, per inaugurare il Regno dell’Eterna Vita del Dio con noi, risposta viva e definitiva al Mistero”, scrive lo stesso Attard nella sua nota a favore della seconda silloge, e poi, a conferma di quanto detto, verseggiando scrive:           “Pazienza, / chiede Cristo / al popol suo, / per poco ancor / sarà martirizzato, / e arriverà Giustizia / al fine / della Gran Tribolazione (…) E’ tempo, adesso, / delle nozze dell’Agnello, / col popol suo / nel mondo preparato. / Alleluia, salute, / gloria e potere / al nostro Dio, / dategli lode / voi tutti suoi servi.” (Dal califfato al Regno).
   Dunque sembrerebbe che, secondo la filosofia poetante di Attard, superata ogni decadenza il Cristo ritornerà sulla terra per decretare giustizia e rinascenza.
   E già questo non ci sembra poco. Ma non è tutto. A conferma della sua visione cristiana e dell’alta visione mistica aggiunge:  “Qual nube / di porpora e d’oro, scendendo / silente la china, / scivola / portando ristoro / la dolce / Parola divina. /All’animo fratto e dolente, / e bene lo vede il serpente, / la mite / carezza del Padre / è balsamo / come di Madre, / perché / in effetti il Signore / è padre / e madre d’amore, / e in Lui / risplende qual stella / Maria, ch’è mamma e sorella.” (Balsamo e ristoro), a dimostrazione della forza incantatoria e terapeutica che solo la contemplazione e la preghiera possono donare a discapito di quella sofferta schizofrenia che caratterizza i nostri giorni.  
   Ma ciò che più piace e avvince è che la stessa dimensione ascetica, indiscutibile, Lo porta, comunque, ad indagare incessantemente circa le questioni teologiche tradizionali più alte come avviene nella poesia intitolata, Cos è la fede. E la Fede, risponde l’Autore a sé stesso / è Amore, / fede / è conoscere / che sei Tu, / Signore, / Eterna Parola / che bruci / le carte / del Tempo, / per unire / ieri e domani, / anche se / sempre rimani / infinito mistero, e pur / così vero, / da poterti toccare, / sentire / sul colo / il tuo fiato, / mentre il Male / ci urla / il Peccato, / sentire / il tuo dolce conforto, / che ci fa entrare / nel porto, / ove onda tranquilla / è la Pace / ove Tu, / sei ancor sulla barca, / a gettare / col tuo amore / le reti.” 
     Certo, gli infedeli, il Miscredente cieco che “stringe in pugno / un piacer di vento”, oppure quella porzione di umanità - che asseconda Il flauto magico, suonato da Satana - che va “alla sua rovina; (…) giù per la china” e “scivola, scivola” fino a quando la “vita sua declina”, o tutti coloro i quali si lasciano prendere dall’Antico serpente che “offusca la mente (…) offrendo agli umani / tentacoli insani (…) e avvinghia e incatena / invitando a cena, / ma l’insano banchetto / è omicidio perfetto”, non godranno mai di quella pace interiore che solo il Regno di Cristo può donare, né di quella fede che, oltrepassando il fuoco apocalittico, garantisce un’eco celeste.       
    E costantemente, parole leggere e trasparenti, come pennellate, musicalità lieve anche nella delusione e nell’indifferenza, come in un canto antico, sa usare Attard per declinare, dunque, quella contemplazione visiva che abbraccia ricordi e rimembranze, alti ideali e antiche virtù, miti e riti, incontri e amicizie, affetti e amori, natura e creato, in una visione mosaicosmica (per dirla alla Tommaso Romano, peraltro attento prefatore di entrambi le sillogi) di raro effetto e di rara intensità che come fiotto vitale alimenta l’essenzialità della speranza.  

martedì 27 settembre 2016

Francesca Buzzotta, "La certezza dell’immortalità" (Ed. L'Erudita)

di Maria Patrizia Allotta


Tutte le storie d’amore autentiche sono belle. Certo, molte nell’arco del tempo inevitabilmente si dissolvono come neve al sole, altre, invece, rimangono eterne nella storia dell’umanità come rocce inscalfibili, magari perché capaci di accarezzare l’anima, rinvigorire lo spirito, lasciare un segno indelebile nel cuore e nella mente di chi ne viene a conoscenza.
   La storia d’amore, per esempio, di Veronica Palermo e di Giorgio Emanuele Di Giovanni - romanzata magistralmente da Francesca Buzzotta nella sua prima opera dal titolo La certezza dell’immortalità, edita dalla casa editrice L’Erudita - per la sua esclusività ha mantenuto intatto il suo significato, il suo senso, la sua ragion d’essere.
   Le vicende dei due amanti si snodano attraverso precise coordinate spazio-temporali caratterizzate da ambientazioni tipicamente mediterranee appartenenti, più precisamente, alla realtà storica della Sicilia contadina dell’Unità d’Italia che vede nella piana Archiepiscopatus Montis Regalis e, soprattutto, presso la  Quercia dei viceré il naturale palcoscenico dell’agire dei protagonisti i quali pur muovendosi in una dimensione soggettiva, personale, intima, danno vita ad un tappeto musivo sociale e collettivo che inevitabilmente riconduce ora all’esclusiva ricchezza etno-antropologica       - fatta d’intimi affetti, riti bizantini, splendidi usi, rari costumi, sacre credenze - di quella che fu dell’attuale Piana dei Greci, attuale Piana degli Albanesi, ora allo squallore, alla meschinità e alla grettezza di una porzione di quella umanità che essendo presa da una visione paralizzante della vita spende l’intera esistenza tra, rancori e invidia, violenza e odio, dolore e morte.
  Infatti, l’Autrice - che appare totalmente disinteressata dall’abbaglio delle voghe dotte ma artefatte, distante dalla furbizia degli infingimenti letterari e lontana da ogni sagoma d’intimismo fine a sé stesso - attraverso un linguaggio chiaro e immediato, sostanzialmente semplice ma incisivo, libero da costrutti baroccheggianti, da banali concessioni alla ridondanza e dall’effimera arte retorica, supportato, invece, da ricerche oggettivamente attendibili ed esplicative che illuminano la storia e la rendono verace, nel raccontare l’odissea di Nica e Giorgio dà vita a un nobilissimo chiaroscuro dovelucentezza e tenebre, gioie e dolori, evocazioni e Mistero, vita e morte si alternano in una visione totalizzante capace di echeggiare non solo infiniti spazi e interminabili tempi ma anche - al di là dell’odio - la forza prorompente dell’amore che in quanto tale se “tenuto costantemente accesso conduce con certezza all’immortalità”.
    E in effetti, è tra le nobili figure femminili e le umili e oneste popolane, tra le autentiche arbërëshe e le volgari comari, tra proprietari e contadini, ricchi e poveri, signori e delinquenti, galantuomini e mafiosi, che nasce, accresce e trionfa un’indicibile passione tra Nica e Giorgio, due anime essenzialmente diverse ma rese identiche da quel prodigioso pneuma vitale che solo il vero bene può sostanziare.   
   Nica - appartenente ad una modesta famiglia di braccianti, bella e giovane, vigorosa e libera,  esuberante ed istintiva “ (…) testarda come un mulo e scalpitante come una puledra”, educata ai veri valori esistenziali e naturalmente protesa verso le alte virtù - senza neppure volerlo, con la sua semplice e naturale armonia rapisce Giorgio - figlio del padrone di una azienda agricola, nobile, maturo, possente, conoscitore della differenza tra le effimere attrazioni fisiche e le durature passioni affettive, ardito e coraggioso - il quale, libero da ogni inutile pregiudizio sociale e svincolato da ogni paralizzante stereotipo collettivo, si perde in quell’amore tanto difficile e complesso quanto necessario e insostituibile che neanche la morte potrà annullare.
   E in effetti, dopo mille vicissitudini, Giorgio muore per mano mafiosa ma nulla cambia per Nica perché “ (…) quando due esseri, due persone, si sono amati profondamente, al punto da far coincidere la propria sfera affettiva - la percezione delle sensazioni e delle emozioni è così amplificata che provano dolore e gioia insieme, la lontananza è vissuta come un abbandono e sentono che nessuno potrà dargli mai quelle emozioni che hanno provato l’un l’altro - con quella sensuale l’esplosione millimetrica dei loro corpi coinvolge tutti e cinque i sensi, vivono dell’odore della pelle del partner, e del suo fiato per respirare, allora  nella coppia c’è Alchimia”, e l’Alchimia come ápeiron rimane in eterno nei cuori autenticamente innamorati.  
   Ciò che è giusto sottolineare è che la straordinarietà della famiglia Di Giovanni coincide con la straordinarietà della Scrittrice palermitana la quale, presa dalla voglia di raccontare le vicissitudini personali di una sua antenata, non soltanto riferisce il tormento di due anime esclusive ed inseparabili quali quelle di Nica e Giorgio ma, in buona sostanza, espone le vicende politiche ed economiche di quell’Italia meridionale tormentata e mortificata allor quando, nonostante gli audaci ma rari atteggiamenti libertari e rivoluzionari, di fatto, i  “puvireddi arristaru puvireddi”.
     Ma non è tutto.
     La dimensione pedagogica - sottile ma costantemente presente nelle 163 pagine che compongono il testo - oltre ad inneggiare il valore assoluto dell’amore celebrato come unica vera arma per sconfiggere ogni male, si muove anche in altre direzioni.
  Infatti, l’enunciazione educativa di stampo platonico circa l’immortalità dell’anima; la rivalutazione dell’insegnamento oraziano del carpe diem ovvero del “sapere cogliere l’attimo, vivere quel momento, intensamente, senza pensare al dopo”; l’edificante sapienza eraclitea della “lotta per una giusta causa” e del “prendere di più da sé stessi”, senza mai arrendersi e senza mai scendere a patti e compromessi con nessuno; l’addottrinamento filosofico a discapito di ogni forma di volgarità, scetticismo e nichilismo tanto caro a Nietzsche, secondo il quale “Chi ha un perché per vivere sopporta ogni come”; e ancora, la teoria leopardiana circa l’importanza delle rimembranze, dei ricordi, delle memorie che reggono e inteneriscono lo spirito e, infine, l’insuperabile lezione di vita di Haidegger che si concentra nel “dover esserci lasciando un segno ai posteri”, sono tutte istanze pedagogiche presenti all’interno del libro che rappresenta un prezioso dono per le nuove generazioni ormai lontane, purtroppo, da certi valori esistenziali.    
  Francesca Buzzotta, dunque, grazie a Nica e Giorgio, attraverso l’edificante parola scritta, viva e autentica, forse inconsapevolmente, combatte il nichilismo, celebra la dignità, festeggia la memoria, proclama la libertà, inneggia l’amore e lascia un segno con il suo esserci.    

martedì 17 maggio 2016

Serena Lao, "Note di parole" (Ed. Thule)

di Maria Patrizia Allotta

    La locuzione latina Nomen omen, tradotta letteralmente, significa “il nome è un presagio” oppure “sorte nel nome” e deriva da un’antica credenza appartenente ai romani secondo i quali nel nome della persona fosse già indicato il suo destino.
   Sembrerebbe però che questo precetto non valga per Serena Lao.
    Infatti, considerando il significato analogico o figurato dall’aggettivo latino serenus riferito al cielo “chiaro, diafano, limpido”, il nome Serena dovrebbe indicare, appunto, serenità, tranquillità, pace.
   Ma l’Autrice della silloge dal titolo Note di Parole - nonostante il significato chiaro e rincuorante del suo nome - va contro tendenza, essendo incline, per sua stessa natura, a duellare insistentemente contro se stessa, contro gli altri e, quando necessario, contro l’intero universo, dando spazio così a un tipico chiaroscuro esistenziale d’indicibile intensità che la rende fortemente singolare.  
    Ora, infatti, la vediamo brillare, infinitamente felice, tra i vicoli della sua indimenticabile Ballarò circondata da allegri catasti di frutta e verdura, insieme ad antiche sagome familiari dalle voci insolite, tra remoti ricordi e vecchie reminiscenze che Le toccano il cuore e Le accarezzano l’anima, ora la cogliamo in un “regno tutto raso al suolo”, dove il “futuro incerto fa dubitare dell’esistenza” e “un destino segnato” fa piegare “la speranza all’oscurità assoluta”; ora la scopriamo protagonista del 390° Festino come ideatrice e vocenarrante dell’intera vicenda umana e spirituale della sua amatissima “Santuzza”, applaudita da un pubblico trepidante, circondata d’affetti e assediata da sinceri complimenti, ora l’avvertiamo tra “aspre tempeste” e “risvegli silenziosi”, “accecata da falsi miraggi”, imbrogliata in un mondo che non Le appartiene perché fatto di malvagità e mestizia, dolore e tristezza, volgarità e nichilismo; e ancora, ora la intravediamo come poetessa, attrice, cantastorie ma soprattutto instancabile ambasciatrice delle tradizioni popolari con l’unico intento di tutelare e diffondere la bellezza e l’autenticità della lingua siciliana, ora, con il cuore infranto, la scorgiamo “sola e straniera” tra “parvenze di attuati sogni”, calata in una “fallace realtà” dove ricerca “redenzione” o magari lievi “oasi di pace che leniscano ferite” per riscontrare, invece, un’ “esistenza priva di significato”, ricca di “silenzi” e “bugie” …. che pure servono “per non morire” del tutto; infine, ora la cogliamo coperta dalle sue sudate carte, intenta alla studio e concentrata nella ricostruzione demoantropologica musicale del suo popolo, cinta dall’alto magistero ideale o reale di artisti quali Nino Martoglio, Ciccio Busacca  e Rosa Balistreri, tutta presa dal componimento di canti siciliani e dalla stesura delle sue “operine”, ora le percepiamo tra le sue  “sbiadite memorie” accompagnate da quei  “lunghi soliloqui a tu per tu”, immersa in un’ “amata solitudine che come materne braccia (…) cinge e consola offrendo quieti mari traboccanti di pace”.
    “Amata solitudine”, si diceva sopra, che inevitabilmente riconduce alle parole di quel Petrarca “solo e pensoso”, il quale, nonostante la labilità di ogni suo sogno, nonostante l’amarezza provata, nonostante il disinganno, riesce tuttavia ad affrontare il corso della vita a testa alta, proprio come la nostra Serena Lao, la quale, intessuta fortunatamente di celesti ricordi, ricca di evanescenti ma importanti amori, strutturata in quei valori etici ed estetici eterni, malgrado tutto, condivide e sposa una coraggiosa sussistenza. 
    E in effetti, così come avviene per l’autore del Canzoniere, anche le liriche di Serena Lao ci riconducono al travaglio della sua avventura vitale - tutt’altro che rettilinea - perché incessantemente fluttuante tra i beni materiali e quelli incorporei, mondani e spirituali, terreni e Sacri, in un continuo andare tra terra e cielo, senza mai un approdo definitivo.
Da qui, lo spasmo, il pathos, il tormento.
Una lotta impari tra “io”, “Es” e “Super Io” per dirla secondo Freud, insomma, un accordo quasi alchemico con il “punto zero” per dirla come Kierkegaard, forse un armistizio necessario, alla maniera di Haidegger.           
   Va sottolineato però, che nonostante l’incessante fluttuare e il mancato approdo, nell’architettura della silloge Note di parole, rintracciamo, tuttavia, un’unità profonda che è data dal pneuma prezioso della poetessa il quale si esprime grazie alla sua stessa vicenda alterna, fatta di abbagli e disinganni, di sogni e di consapevolezza amara, di dolcezza e malinconia, di coscienza del peccato e ansia di redenzione, in una summa spirituale complessa e mai conclusa, che dà spazio ad una confessione intima e recondita, mai inutilmente intimistica, capace di diventare, per ogni eventuale lettore, paradigma possibile, soprattutto per l’esemplare celebrazione della solitudine.  
     Quest’ultima, infatti, secondo il pensiero della Nostra, non è cantata come necessario isolamento, né come possibile atteggiamento nichilistico, ma come vettore per cercare se stessi, come possibile strumento per “immergersi e purificarsi dalle aspre tempeste dell’imperfetta esistenza, riscoprendo interiorità sgorgate da positivi intuiti”  per “ascoltare i battiti del cuore e risvegliare le placide consapevolezze” per sentirsi “libera e parte integrante dell’infinito” e soprattutto percepire - con tutti i possibili dubbi - la “Presenza” di un Assoluto.       
    Dunque, vera protagonista del testo - edito nel 2016  da Thule, con abile prefazione di Francesca Luzzio e postfazione di Vito Mauro - è l’anima tormentata della poetessa palermitana doc, mentre l’aspirazione a una felicità tutta laica e terrena, certamente non effimera e fugace, rappresenta il quid del versus, il ritmo, poi, è dato dalla musicalità della stessa parola che risulta essere essenziale, mai ridondante, fondante, capace di generare quel flatus vocis che da una dimensione fortemente soggettiva abbraccia e condivide una visione universalmente valida.
   Un naturale ritmo musicale, si diceva sopra, che diviene melodia, armonia, stile, come dire, arte terapeutica  indispensabile, in un tempo in cui s’invoca salvezza, si supplica liberazione, si implora Bellezza e Verità, nella speranza di ritrovare quella dimensione antropica, tristemente andata.     
   Un regalo quello di Serena Lao allora, uno scrigno prezioso, un magico dono. E non solo perché ci offre l’essenza della propria interiorità - che già è tanto - con fatale autenticità, quanto perché riprende quella divina eufonia che diventa concerto per chi crede ancora nella forza della parola impalpabile e nella potenza della sacralità del verso diafano.
   “Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce affatto”, dice Pascal.

Serena Lao questo lo sa e, con il cuore in mano, lo dimostra. 

sabato 9 gennaio 2016

Rendiconti Critici / 1

Pubblichiamo recensioni e interventi critici sulla raccolta di poesie “Anima all’alba” edito da Thule di Maria Patrizia Allotta, raccolti in un quaderno della nuova serie dal titolo “Rendiconti Critici “ che ospiterà raccolte di articoli a autori o recensioni e saggi su singoli autori non necessariamente pubblicati da Thule.Riportiamo di seguito il recentissimo giudizio espresso dall’autorevolissimo critico letterario Giorgio Barberi Squarotti sul volume della poetessa palermitana:”Raffinato e luminoso è il lirismo di  Maria Patrizia Allotta, che tende all’essenziale visione statica, alla sentenza commossa e sapiente delle vicende delle stagioni”.